Corsa

Un’impresa diventata iconica

Odette Vetter si intrufolò nella Morat-Fribourg del 1975, che all’epoca era riservata ai soli uomini - Ora quella vicenda fa parte di uno spot della Nike
Odette Vetter all’epoca della corsa «conquistata» in un fotogramma tratto da un filmato della RTS.
Paolo Galli
01.03.2019 13:08

Odette allora non si rendeva conto di quanto rivoluzionario potesse essere il suo gesto. «Io volevo semplicemente correre», dice ancora oggi. Oggi che quell’impresa è finita in uno spot della Nike, tra altri simboli di coraggio sportivo declinato al femminile. Serena Williams in primo piano. Altre, da Castor Semenya a Becky Hammon, prima donna alla guida di una squadra di NBA, sullo sfondo, a creare un percorso, una storia, forzatamente moderna. Odette Vetter, pur sorpresa della notizia, non si imbarazza comunque più di tanto. Ma ammette: «Fa piacere. Mi fa piacere soprattutto l’aver fatto qualcosa per le donne. Penso alla prima corsa che feci in gioventù: ero l’unica donna tra i partecipanti. Adesso tante donne corrono, tantissime, ovunque. Forse, con il mio gesto, la mia caparbietà, ho ispirato altre donne. E questo, davvero, non può che rendermi orgogliosa». In effetti, lo diceva lo scorso anno Laurent Meuwly, direttore tecnico della Morat-Fribourg attuale, a Le Matin, si sta raggiungendo addirittura la parità a livello numerico, in fatto di partecipazione alla corsa. «Sul percorso dimezzato, le donne sono addirittura ben più numerose rispetto agli uomini», spiegava.

Stare a guardare

«Mio marito era iscritto alla corsa. Io avrei dovuto stare a guardarlo, sul ciglio della strada. A un certo punto mi dissi: ‘D’accordo, però potrei farla anch’io questa corsa, potrei partecipare anch’io’, anche perché sapevo di poter reggere la distanza. E allora decisi di farla». Odette, oggi 71 anni, torna su quella Morat-Fribourg, quella finita nello spot della Nike. Era il 1975. La corsa era solo maschile: vietata alle donne. Il suffragio femminile in Svizzera era stato introdotto appena quattro anni prima. Un’altra epoca insomma rispetto a oggi. O forse non del tutto, visto il contenuto del messaggio portato dallo spot in questione. «Io la vedevo come una corsa stupenda. E lo fu, davvero. Correrla mi diede un piacere enorme, così come finirla in mezzo al gruppo, quindi non distaccata, solitaria. Fui fiera, quel giorno, di me stessa». Lo è ancora. Finì la corsa in mezzo a un gruppo che in sostanza la accompagnò al traguardo, quasi proteggendola. E poi grandi abbracci, segnali di stima, di vicinanza ideologica.

Il suo nome è Joseph Vetter

Odette quel giorno, la mattina, mandò il marito (poi diventato ex marito...) a ritirarle il pettorale – si era iscritta con il nome di Joseph Vetter -, poi si mise un’ampia maglietta, un cappellino: tutto per passare inosservata, donna nascosta tra gli uomini. Come lei altre due o tre donne, una delle quali ben rappresentata nello spot mentre scappa dagli uomini della sicurezza con addosso, sulla sua t-shirt, uno slogan alquanto esplicito («Et les femmes? Pourquoi pas les femmes?»). «L’organizzatore venne a conoscenza del nostro progetto e si mise subito di traverso. Anche la Tv venne informata, per cui riuscì a inseguire e a catturare le immagini più efficaci». Nei filmati dell’epoca si vede in effetti l’organizzatore spiegare a Odette Vetter e al marito i motivi per cui la corsa era chiusa alle donne. «Non prese bene il nostro tentativo di raggiro delle regole. Me ne disse di tutti i colori e poi abbozzò che il motivo per cui la corsa non ci era aperta consisteva nell’assenza di uno spogliatoio per le donne. Assurdo!». La Morat-Fribourg nasceva come una corsa militare. La sua natura tardava quindi a cambiare coordinate. «Il fatto che le donne non possano partecipare è pura misoginia», disse il marito, ripreso dalle telecamere. «Non è un discorso di misoginia. Questa è una prova nazionale – rispose l’organizzatore, elencando i vari problemi, compreso quello dello spogliatoio mancante – Facciamo molto per le donne nello sport, ma allo stato attuale non possiamo introdurre la categoria femminile alla Morat-Fribourg. Non può essere la vostra famiglia a imporcelo. Se la signora si è iscritta con il nome di un uomo, siete addirittura degli impostori».

Io volevo semplicemente correre. Dimostrai che anche le donne potevano farcela

L’obiettivo era la corsa

L’impressione comunque è che la vallesana, di Sierre, non cercasse un palcoscenico da cui urlare il proprio femminismo – ci dice, anzi: «Io non mi reputo femminista, non lo sono» – La sua voglia di correre era però più forte di ogni barriera. In sé poi probabilmente aveva un istinto anche anticonformista, ma sbatterlo in faccia alle istituzioni non era il suo obiettivo primario. «Sì, il mio obiettivo in realtà era quello di correre. C’erano poche donne allora che correvano le lunghe distanze. Io volevo mostrare di averne le capacità. Simbolo o non simbolo, poco mi interessa anzi il discorso. Osai farlo, osai correre. Altre donne probabilmente avrebbero voluto correre quella gara, come me, come noi. Solo non osarono farlo. Fu bellissimo correrla nonostante i divieti. Mostrammo che anche le donne possono correre. E che la doccia, anche in assenza di uno spogliatoio, possiamo poi farla a casa nostra». Una donna con poche paure, di certo non quella della stanchezza. Ha sempre camminato, quando non corso. Aveva raccontato, Odette, che quando era piccola non veniva accompagnata a scuola in auto. L’auto non c’era. E allora si beveva dieci chilometri ogni giorno. Imparò ad amare la natura, lo sguardo al mondo, persino lo sforzo. Il colmo: all’epoca le sue scarpe erano di un’altra marca, non quella lì quindi, quella americana, bensì quella... tedesca.

Serve solo un buon paio di suole

Al centro di tutto quindi non c’è un qualsivoglia atto rivoluzionario, bensì la corsa. Odette Vetter non ha mai smesso di correre. Ha perso soltanto tre edizioni della Morat-Fribourg. Ha d’altronde avuto tre figli. Ora è anche nonna. Pare corra ancora quattro volte ogni settimana, quindici chilometri a colpo. «Per me è semplicemente uno sport ideale, non caro. Serve solo un buon paio di suole, per il resto ognuno corre come vuole, vestito come vuole, con lo stile che preferisce. Tutti possono farlo. E poi è sano, fa bene, è bellissimo farlo nella natura. Si può pensare molto, così ogni preoccupazione, ogni pensiero appunto, resta lì, sulla strada. Fa bene al corpo e alla testa». Di testa ne sa qualcosa, lei, una vita da insegnante. Qualcuno dice, anche lì, in quell’ambito, controcorrente. «Sono cresciuta da bilingue. Dopo le scuole dell’obbligo in tedesco, ho frequentato le commerciali in francese. Ho quindi insegnato, nelle scuole elementari, sia in tedesco che in francese. E questo non era ben visto dagli ispettori. Così come erano ritenuti troppo prematuri certi miei metodi. Ho fatto insomma tante cose prima del tempo». Oltre ad avere realizzato, nel 2000, il sogno di partecipare alla maratona di New York, ha percorso per due volte il Cammino di Santiago di Compostela. «Due volte, sì, nella sua interezza». La seconda un anno fa, per festeggiare i suoi 70 anni. «Adoro la resistenza, le lunghe distanze. Ogni giorno nella natura, tra i villaggi, incontrando tante persone, tutte diverse, con diverse origini e provenienze. Trovo bellissimo il fatto di camminare assieme, con lo stesso obiettivo, e parlare, e confrontarsi. Si cammina in comunità, tra la gente. Io ho vissuto il sentiero camminando. Certo, l’avessi fatto correndo sarei arrivata in fondo ben prima...».