«USA, Cina e Iran: una guerra totale non conviene a nessuno»

L’annunciata invasione israeliana di Gaza, con le truppe schierate al confine, rischia di produrre un allargamento del conflitto in tutta la regione dagli esiti imprevedibili. Mentre l’esodo della popolazione palestinese prosegue, nuovi attori internazionali si affacciano sullo scacchiere internazionale. La Cina si schiera accanto ai palestinesi, Teheran disegna una linea rossa, mentre gli USA portano una seconda portaerei nella regione.
Professor Del Pero, Pechino si è schierato apertamente a favore della causa palestinese. Come interpreta questa mossa?
«La Cina ha costruito negli anni una rete di rapporti interessati con alcuni Paesi dell’area, a cominciare dall’Iran, soprattutto in chiave antiamericana. Ciò detto, Pechino è l’attore che ha meno interesse a una destabilizzazione degli equilibri in Medio Oriente. Al di là dell’interesse puntuale per una revisione della situazione su Taiwan, la Cina è un attore che tende allo status quo. Non ha bisogno di guerre che farebbero schizzare verso l’alto il prezzo del petrolio. In questo conflitto, per quel poco che l’ha vista partecipe, la Cina è intervenuta in modo ambivalente, affermando comunque la necessità di un contenimento dello scontro».
Chiedendo «la convocazione di un incontro internazionale per discutere il consenso sulla creazione di uno Stato palestinese», la Cina si presenta come forza mediatrice. Pechino vuole sostituirsi agli USA?
«È chiaramente un intervento molto interessato, il suo. Da una parte la Cina sostiene i suoi interlocutori, a cominciare dall’Iran. D’altra parte, il suo intervento come forza mediatrice è poco realistico, nel senso che Israele riconosce come unico attore esterno gli Stati Uniti. Più in generale, si tratta di un’azione di propaganda: in un contesto internazionale estremamente fragile, la Cina cerca di proiettare un’immagine di sé come Paese responsabile, secondo uno schema già collaudato più volte in altri contesti».
Questo ingresso della Cina nel quadrante mediorientale sposta gli equilibri e i rapporti di forza con gli Stati Uniti? Le dinamiche geopolitiche nella regione cambiano?
«Non credo che siamo già a questo punto. Nelle gerarchie internazionali la Cina ha certamente assunto un peso emergente, ma rimane comunque “un secondo in grado” rispetto agli USA. Il suo intervento va tenuto in considerazione, senza tuttavia sopravvalutarne le capacità di incidere. Detto altrimenti: sono più pesanti le parole pronunciate da Biden, quando dice che occorre distinguere tra il popolo palestinese e le responsabilità di Hamas. Oppure, sull’opportunità di rilanciare il dialogo sulla creazione di uno Stato palestinese».


Con queste parole, Biden a chi si rivolge? Ad Hamas? O piuttosto a Israele?
«Il suo è un messaggio a 360 gradi. Da una parte Biden ribadisce il pieno sostegno americano nei confronti dell’alleato storico, ossia Israele. L’invio di una seconda portaerei al largo delle coste israeliane va letto in questa chiave. Biden sta dicendo “siamo pronti a sostenervi con ogni mezzo”. D’altra parte, però, pone una condizione: la contropartita è che Israele non prenda decisioni militari che allarghino il conflitto. Nello stesso tempo, Biden lascia intendere che questa azione militare di Israele debba segnare la fine della linea Netanyahu e l’apertura di un dialogo con i legittimi interlocutori della Palestina, ossia l’Autorità nazionale palestinese. In chiave domestica, invece, Biden cerca di contenere le critiche del fronte repubblicano che lo accusa di aver scelto la linea della pacificazione con l’Iran, barattando lo scambio degli ostaggi con lo scongelamento dei 6 miliardi di dollari bloccati nelle banche sudcoreane. In America c’è inoltre un fronte contrario al proseguimento degli aiuti all’Ucraina. Aiuti che, secondo queste critiche, avrebbero distratto gli Stati Uniti da teatri più importanti, come il Medio Oriente. Nell’anno elettorale, dunque, le parole di Biden sono da leggersi anche come tentativo di parare qualche critica interna».
Che fare allora con Hamas? Annientare la presenza del movimento islamista nella Striscia, come vorrebbe fare Israele, è un’opzione percorribile? Oppure si dovrà scendere a patti con Hamas?
«Un dialogo con Hamas per Israele oggi è impossibile, pertanto non rimane altra via che lo scontro con il movimento islamista. La cui presenza nella Striscia Israele vuole indebolire. Per quanto l’esperienza del Governo radicale di Netanyahu volga al termine, non è pensabile al momento nessun’altra soluzione che non sia un’azione punitiva contro Hamas. Gli Stati Uniti scommettono su un’azione di questo tipo, accompagnata però, in un secondo momento, dall’apertura di un dialogo che porti a nuovi processi di pace con la controparte palestinese».
Perché gli Stati Uniti temono un allargamento del conflitto? Perché questa linea rossa non deve essere valicata?
«Un allargamento del conflitto che coinvolga attori esterni, in primo luogo l’Iran, obbligherebbe gli Stati Uniti a intervenire in difesa di Israele. Gli USA dovrebbero sostenere un intervento militare oneroso che renderebbe più complicato il mantenimento del fronte ucraino. A trarre vantaggio da un’escalation regionale sarebbe quindi la Russia».


Come interpretare l’avvertimento di Teheran, secondo cui «nessuno può garantire il controllo della situazione se Israele invade la Striscia»?
«Molto dipenderà dalla natura e dalla tempistica dell’invasione israeliana su Gaza. Se è un’operazione chirurgica e breve, che distrugge le infrastrutture di Hamas e ne decapita fisicamente la leadership, allora è presumibile che l’Iran non venga trascinato nel conflitto se non indirettamente attraverso il sostegno dei suoi alleati tradizionali, ossia Hezbollah, la jihad islamica e Hamas stessa. L’Iran è un attore spregiudicato e opportunistico, ma nella sua breve storia di vita teocratica non ha mai manifestato propensioni suicide. Entrare direttamente nel conflitto vorrebbe dire esporsi a una rappresaglia pesantissima da parte americana. La diplomazia USA del resto ha affermato di aver attivato tutti i canali di comunicazione con Teheran. Sottotraccia e in silenzio Stati Uniti e Iran si stanno quindi parlando».
A questo punto gli Accordi di Abramo, sponsorizzati dagli USA, che sviluppi possono avere?
«L’Arabia Saudita ha sostanzialmente messo in stand-by il processo di normalizzazione delle relazioni con Israele iniziato con gli Accordi di Abramo. Questo avvicinamento tra Israele e l’Arabia Saudita non era ancora compiuto. Oggi Riad si è sfilata. Quello che sta accadendo a Gaza di fatto congela gli accordi di Abramo allontanando i due attori. Forse questo era l’obiettivo politico di Hamas, un obiettivo che è stato raggiunto. Dopodiché Hamas ha superato una linea. L’attacco militare con vittime civili ha rappresentato un pogrom inaccettabile e nello stesso tempo uno spartiacque per Hamas».
Come vede l’evoluzione del conflitto? Le violenze e le rappresaglie di questi giorni potrebbero portare paradossalmente a una svolta nelle relazioni tra Israele e Palestina?
«È difficile essere ottimisti. Se leggiamo la contingenza con il prisma dell’esperienza storica, è difficile pensare a una soluzione. Dagli accordi di Oslo in poi abbiamo assistito a un progressivo deterioramento dei presupposti per un dialogo e un piano di pace. Tra il rilancio di un processo di pace e un allargamento del conflitto vi è, in realtà, anche una via intermedia: ossia uno stallo con centinaia di migliaia di profughi; con una comunità internazionale presente con aiuti e finanziamenti per la ricostruzione di Gaza; e con Israele - scottato da questa esperienza - costantemente pronto a reprimere militarmente ogni insorgenza».
Nelle parole di Biden - ha detto - si avverte una certa pressione verso il cambiamento, affinché Israele, Paese democratico, compia un processo di riconoscimento della Palestina. Crede davvero in questa svolta?
«Credo che sia l’auspicio dell’amministrazione Biden, ossia che questa tragedia apra una finestra di opportunità, data sia dalla sconfitta di Hamas e dalla sua delegittimazione; sia dalla sconfitta politica di Netanyahu e quindi dalla riattivazione di un dialogo tra un Governo israeliano meno radicale e con chi oggi governa parte della Cisgiordania. Questo è l’auspicio. Se è realistico? Il tempo ce lo dirà. Dobbiamo però tenere conto di un’altra incognita. Le elezioni americane si avvicinano. Un’eventuale amministrazione Trump cambierebbe non poco le carte in tavola verso una linea di minor impegno al dialogo».