Identità

Valle di Muggio, tra presente e tradizioni

L’analisi del Museo etnografico di un territorio e la sua relazione con abitanti, usi e costumi – Le interviste al curatore degli spazi espositivi di Cabbio e a un’abitante nata, cresciuta e vissuta a Scudellate
Da sinistra Campora e Caneggio. (Foto Maffi)
Leila Bakkers
05.04.2019 06:00

MUGGIO - La Valle di Muggio è un luogo al di fuori dal tempo, dove innovazioni e tradizioni si relazionano in maniera equilibrata, senza prevaricazioni. Questo grazie ad un impegno indefesso sia della popolazione, sia del locale Museo etnografico che con le sue attività mantiene vivo il legame con usi, costumi e strutture d’un tempo. Per scoprire le peculiarità della valle e dei suoi abitanti, abbiamo parlato con Mark Bertogliati, curatore del Museo etnografico di Cabbio che ha riaperto da poco i battenti e inaugurerà sabato «Ritratti, segni di identità»: una serie di attività – unite dal fil rouge della fotografia – il cui scopo è indagare sulle caratteristiche e le peculiarità locali. Il museo, infatti, attivo da quasi 40 anni, non è riservato solo ai visitatori, ma anche agli autoctoni e mira a favorire lo scambio vivo e la conoscenza del territorio applicando il concetto di ecomuseo alle proprie attività.

Dall’attività museale e dalle iniziative volte a preservare strutture, usi e costumi della valle, emerge un chiaro attaccamento alle tradizioni. Quanto impegno richiede?
«Il legame con il territorio è solido anche nella popolazione, che dimostra interesse per le attività del museo. Allestire il programma richiede però uno sforzo costante. Gli stimoli della società sono continui e impongono proposte e metodi sempre nuovi per riscoprire le tradizioni. La Valle di Muggio negli ultimi decenni è molto cambiata: numerose famiglie sono venute a insediarvisi, forse in fuga dai paesaggi un po’ abusati del fondovalle, e hanno portato con loro nuovi modi di pensare, abitudini e un diverso approccio al territorio. C’è però curiosità per il patrimonio culturale locale e dall’unione tra tradizione e innovazione nascono nuove identità».

I profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni sono in qualche modo compensati dall’arrivo di famiglie che si attivano per portare avanti le tradizioni?
«Sì, è una dinamica positiva nella misura in cui non viene a mancare la matrice che permette al paesaggio di essere conservato e gestito, né quella che ha ancora una memoria storica e tramanda gli usi passati».

Riesce in modo naturale questo passaggio?
«No: entrambe le parti devono fare un passo vero l’altra. Il museo ha anche l’obiettivo di favorire quest’avvicinamento e propone attività anche per la popolazione locale oltre che per il turista, come la battitura delle castagne, la festa del mulino, le iniziative legate al territorio, la presentazione di progetti di restauro, conferenze e tanto altro. Non è l’unica modalità di intervento: un altro aspetto, di cui si occupa maggiormente la Regione Valle di Muggio, è garantire uno sviluppo anche economico creando un indotto. Le due dimensioni devono andare pari passo per avere uno sviluppo armonioso, accompagnando la valle nella sua evoluzione».

La mostra mira a creare un ritratto della valle. In che modo?
«L’idea è di riflettere sull’identità collettiva. Lo facciamo attraverso i nomi di luogo, specchio di una relazione tra generazioni passate e territorio, con i suoi limiti e i suoi nodi; attraverso i nomi delle persone, che riflettono la volontà delle famiglie di perpetuare una tradizione, oggi cambiata; tramite l’immagine di sé degli abitanti ricostruita attraverso numerose interviste. L’analisi considera anche chi si è trasferito e si è integrato contribuendo a portare nuovi approcci e punti di vista. Si propone poi una riflessione sui volti dei residenti, con un’esposizione di fotografie sulle attività nel territorio, di antichi gesti, di luoghi, ma anche ritratti di persone. Questo è stato possibile con il coinvolgimento di due fotografi: Roberto Pellegrini e Simone Mengani. Ognuno di loro propone un’installazione per l’interno e per l’esterno di Casa Cantoni a Cabbio che permette di interrogarci sui cambiamenti della valle negli ultimi 40 anni».

La valle rappresenta talvolta una fuga dalla quotidianità e questo vale sia per il turista, sia per chi decide di abitarci. In che modo le innovazioni tecnologiche sono state accolte?
«In Valle di Muggio l’uomo opera da secoli con un certo tipo di gestione, che si è anche sviluppata nel tempo in base alle tendenze in atto nella società, ma con tempi molto più lenti. L’evoluzione si riflette in modo indiretto sul territorio: con l’abbandono dell’agricoltura, l’avanzamento del bosco al posto dei campi coltivati, l’innesto di nuove costruzioni benché il patrimonio costruito locale si sia mantenuto più o meno simile grazie all’intervento di chi, precocemente, prima di noi, si è interrogato sui mutamenti in atto e sulle loro minacce. Alcuni manufatti tradizionali e testimonianze del passato, come l’albergo Bellavista, sono spariti. Vi sono però anche nuovi innesti, come il Fiore di Pietra».

Mantenere le tradizioni sembra legato a una certa nostalgia del passato...
«È un sentimento che c’è, ma non ci condiziona: la valle, in fondo, è sempre stata dinamica. I cambiamenti comportano talvolta una certa emotività: è quasi impossibile osservare una fotografia d’epoca e non interrogarci su quello che abbiamo perso. Ma l’evoluzione consente pure la conservazione del paesaggio culturale che avviene con uno scopo preciso: non è solo una testimonianza, ma un elemento da riscoprire e rivisitare. Quello che più deve spaventarci è la perdita della memoria del territorio: alcuni mutamenti sono inevitabili, ma è bene che avvengano con la consapevolezza di quello che si perde».

Le tradizioni valmuggesi sono ancora un elemento fragile o a rischio?
«Sì, la loro tutela richiede un impegno continuo. In particolare la memoria degli anziani è un settore che dovrà vederci ancora più attivi. I nati prima della seconda Guerra Mondiale non sono più molti e sono scrigni di aneddoti, relazioni sociali, rapporti tra persone, modi di vivere e di fare comunità. Dobbiamo salvare le loro testimonianze: i documenti d’archivio non bastano perché perderemmo la dimensione soggettiva, personale e intima con il territorio. Anche la memoria delle vicende più recenti, degli ultimi 40-50 anni, come l’evoluzione del turismo sul Generoso, l’insediamento delle prime attività, botteghe e caseifici, gli usi comunitari del territorio. Paradossalmente abbiamo più informazioni sull’uso tradizionale del territorio che non su questioni pratiche e materiali relative gli ultimi decenni, come ad esempio il contrabbando. Sono dinamiche che tutti hanno presente ma non ci si premura di metterle su carta o registrarle perché si pensa che non sia ancora storia. Anche quello che facciamo oggi va, in fondo, documentato perché domani sarà storia.»

In che modo il turismo si inserisce e relaziona con la valle?
«Il nostro è un turismo lento, con il desiderio di scoprire il territorio, in linea con la volontà di un impatto limitato sul territorio. L’abitante che vi è confrontato non è per forza attivo nel turismo e non per forza trae qualche beneficio diretto, quindi qualche attrito ci può essere. Va senz’altro favorito il turismo intelligente, che aiuta l’economia locale. I posti letto non sono molti, anche se in crescita. Abbiamo sovente un turismo di giornata o su pochi giorni. E chi viene, poi torna, perché trova una dimensione autentica. Il turista spesso è svizzero tedesco o tedesco o viene dall’Italia. Meno sovente è ticinese e ancora meno composto da indigeni, che già conoscono la valle. Bisogna però prestare attenzione sia a chi viene da fuori, sia agli autoctoni, con proposte come corsi o attività per bambini, la colonia diurna o lezioni sulla panificazione con lievito madre.

Una vita trascorsa sulle pendici del Monte Generoso

Di com’era la Valle di Muggio quando la vita contadina era l’unica possibile e quando le case non avevano né bagno, né elettricità, ci parla Iride Cereghetti, 79 anni, originaria e residente di Scudellate. La località, che dista circa 5 chilometri da Muggio, deve il suo nome all’uso, ormai dimenticato, di fabbricare scodelle in legno. «Secondo i racconti tramandati, queste venivano create sull’alpe e spedite a valle all’interno di sacchi nel fiume, quando era in piena», dice. «Oggi a Scudellate ci abitiamo in 26», spiega ancora. «Quando ero piccola però in paese vivevano più di cento persone: in ogni famiglia c’era un contadino, con mucche, conigli e galline. Oggi i contadini si contano sulle dita di una mano». «Molti usi – prosegue Iride – sono andati persi. Ad esempio a carnevale si facevano i tortelli e il martedì grasso si montava la panna con le castagne. Le famiglie erano unite: a Natale si andava a messa a mezzanotte insieme e la Vigilia c’era l’abitudine di indossare sempre qualcosa di nuovo. Io lo faccio ancora e l’ho insegnato a mia figlia, che a sua volta lo fa con le sue bimbe». Anche il giorno dei morti c’era una particolare usanza: «La sera si mettevano 5 o 6 castagne su un piatto. La mamma diceva che di notte passavano i morti a prenderle. La mattina però i genitori si alzavano presto e le tiravano via per farci credere che erano arrivati», racconta. Anche la scuola è cambiata: «Il mio maestro insegnava a sette classi e i più grandi aiutavano i più piccoli. Dopo le scuole se si voleva imparare qualcosa bisognava lasciare la valle: io sono andata a Riva San Vitale per fare economia domestica e poi ho lavorato a Lugano in un ristorante dal 1955 al 1965. Ci davano 200 franchi al mese», dice notando che al giorno d’oggi la somma non basterebbe per una settimana. Le case non avevano né acqua corrente, né elettricità: «Il gabinetto non c’era: avevamo un buco e si buttava dentro l’acqua. Da piccoli poi, il bagno si faceva in un catino davanti al camino acceso. Oggi, guai! – esclama Iride – Se un giorno va via la luce o manca l’acqua siamo disperati. Siamo troppo abituati ad averle quando vogliamo». Eppure fino a pochi mesi fa a Turro (nei pressi della chiesa di san Giovanni, viveva un’anziana che in casa non aveva tutte queste «comodità moderne», come le chiama Iride. La signora, novantenne, da pochi mesi si trova in una casa anziani, «ma ha ancora la testa buona», assicura Iride. «Anche i fratelli che gestiscono l’Alpe di Génor vivono ancora metà dell’anno senza elettricità e attingendo l’acqua dal pozzo», dice. Ma come vive Iride oggi in valle? «Prendo la Posta e vado a Muggio per aiutare mia figlia con le bambine: faccio i letti, la spesa alla Dispensa e cucino il pranzo. Poi torno a casa». I cambiamenti positivi non mancano: Iride l’anno scorso ha visitato il Fiore di Pietra. «Non è male! Mario Botta è così, è particolare, ma è bello!», afferma. Della sua valle ama in particolare il Museo etnografico a Cabbio e il mulino di Bruzella: «Andate a vederli», consiglia, «al mulino si vede come preparavano la farina, ed è buona. Quella rossa non mi piace tanto, ma prendo quella gialla e quella scura e le mischio per fare la polenta», svela. «Da piccoli si viveva di polenta, qui», prosegue. «La mamma la faceva sul fuoco con il paiolo, poi la versava e tagliava le fette con il filo. Si cucinavano 3 o 4 uova nel tegamino e si faceva “polenta e öf”. Mangiavamo poca carne: a Natale e a Pasqua passava il macellaio di casa in casa, ma per il resto, al massimo qualche gallina e qualche coniglio, perché li avevamo. E i gatti in salmì. Ma io non li ho mai mangiati, povere bestie! Adesso comunque non sono più buoni: prima mangiavano i topi e le croste di formaggio, ma oggi con tutte le carni e i croccantini che trangugiano non sono più buoni».