«Vi racconto Sciascia, pensatore sempre libero»

Lo scrittore e giornalista Matteo Collura, con Il maestro di Regalpetra. Vita e opere di Leonardo Sciascia ( La nave di Teseo) ripercorre in forma di romanzo biografico tutta la vita del grande scrittore attraverso i suoi libri, e ne rilegge la profondità e gli intenti in un sovrapporsi di emozioni. Lo abbiamo intervistato.

L’opera è una riedizione del libro apparso la prima volta nel 1996, qui rivisto e integrato, reso ancora più attuale e pressante, perché Sciascia è ancora oggi una presenza fortissima nella coscienza degli italiani. Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 –Palermo , 20 novembre 1989) durante la sua vita si è occupato di ogni aspetto critico dell’esistenza, delle storture politiche e sociali che metteva alla gogna nei suoi articoli. Ha scritto della Sicilia e dei siciliani, della religione, della letteratura, della politica e della mafia. Ma anche di stati d’animo, di sentimenti e passioni, di gioie e illusioni, pena e sacrificio.
Dottor Collura, secondo lei Sciascia fu un testimone che non si è mai lasciato spaventare da imbrogli e inquinamenti dei fatti?
«Sciascia è stato un testimone che nell’immaginario collettivo non era un personaggio che aveva un passato, una famiglia, una storia personale da raccontare: sembrava un omino normale. Invece scavando nella sua storia, la sua era una vita ricca e drammatica. Questo ha influito sul suo essere scrittore. Si nasce in un luogo, e quel luogo concorre sicuramente, è un destino. Se Sciascia fosse nato in un’altra zona, non a Racalmuto nel 1921 in questo angolo di Sicilia sperduto, dimenticato, di zolfatari, di miseria, di mancanza di giustizia e di assenza dello Stato, sarebbe stato un altro scrittore. Invece è diventato il testimone che sappiamo».
Avrebbe potuto vivere dappertutto, ma non ha mai voluto abbandonare la Sicilia. Un attaccamento impossibile da recidere?
«La Sicilia per lui era la metafora del mondo. Trovava nell’isola tutto quello che gli serviva per leggere il mondo. In alcuni appunti autobiografici scrisse che la sua infanzia non era diversa da quella di Stendhal a Grenoble. La Sicilia era la frontiera del diritto e dell’idea di Stato, però era anche un mondo in cui tutto accadeva. Bastava leggere i segni della storia e dell’attualità. Lui s’era trasferito da Racalmuto a Caltanissetta, e poi a Palermo. Gli sarebbe piaciuto vivere a Milano, ma anche a Parigi che per lui non era solo la città dei lumi e dei lungosenna, delle grandi librerie antiquarie e del grande positivismo, ma lui ovunque trovava anche una dimensione paesana. Una sera a Parigi assistette ad una festa e la paragonò alla festa del suo paese. Riusciva a ritagliarsi sempre uno spazio in cui il rapporto umano e l’orizzonte non sono mai sfocati».
Perché ha dedicato a Sciascia un «romanzo biografico» e non una biografia?
«Perché secondo me, una storia narrata ha più stile di una biografia. La mia scrittura è narrativa e per scrivere la storia di Sciascia ho preferito un romanzo come già feci con Pirandello».
Ad un certo punto della sua opera, lei scrive che Sciascia è «morto da perdente»: che cosa voleva dire veramente? La sua testimonianza non è sempre stata una voce autoritaria molto ascoltata?
«Morto da perdente perché molte cose che lui auspicava non si sono avverate. Si sono avverate le sue previsioni, che sono tutt’altro che ottimiste. Sciascia era un uomo appartato. Moglie e figli e una vita piccolo borghese. Ma nell’essere scrittore è stato di un anticonformismo straordinario. C’è un grande scarto tra la sua vita privata e l’essere scrittore, che è unica in Italia. Sotto questo profilo sembra strana la sua amicizia con Pasolini. Che cosa avevano in comune? Apparentemente niente, ma quando Pasolini fu ucciso lui scrisse: “Noi abbiamo sempre pensato e detto le stesse cose anche se ci divideva un pregiudizio”: Pasolini aveva una vita privata che lui non riusciva a comprendere».
Nella sua opera prevale lo Sciascia romanziere o il saggista critico?
«Lo Sciascia romanziere di A ciascuno il suo è di una eccellenza straordinaria, anche se secondo me, il suo grande romanzo che si avvicina alla grande tradizione europea, è Il Consiglio d’Egitto. Ma poi ci sono piccoli libri come Alfabeto pirandelliano, che è un gioiello, e parlando di Pirandello, che molto l’ha influenzato, lo descrive in modo illuminante discutendo delle sue battaglie e delle sue polemiche. Anche libretti come Nero su Nero, libro che somiglia ad un Journal francese, ci sono delle annotazioni straordinarie. Una dice: “In Italia c’è un modo di dire molto diffuso: tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine”. Sembra un gioco di parole, una battuta. Invece è una frase perfetta che spiega come mai in Germania ci siano più persone in galera per reati economici».
A trent’anni dalla scomparsa qual è oggi il peso di Sciascia nella cultura italiana?
«È il peso di un intellettuale colto, di un uomo che ci aiuta a ragionare con la nostra testa, non darla in affitto al pensatore di turno, in base ai dati che abbiamo. E vivere liberi finché possiamo. Liberi dal bisogno se abbiamo il necessario per vivere, liberi dal guadagno. Lui ha sempre resistito alla lusinga del denaro, al punto di rifiutare una cifra pazzesca dalla Mondadori per l’esclusiva di tutti i suoi libri. Questa la dice lunga sulla qualità dell’uomo Sciascia».