Yemen, la feroce guerra a distanza tra Arabia Saudita e Iran

Si incattiviscono i bombardamenti della coalizione sulle regioni controllate dai ribelli - A farne le spese sempre più civili – Dall’inizio del conflitto sono almeno 6.500 i morti
Farian SabahieViviana Viri
30.08.2016 18:01

Ancora un attentato con decine di morti solo ieri (vedi articolo in basso), ancora massacri di civili, ancora ospedali colpiti, in una guerra che non ha la stessa attenzione mediatica di quella siriana ma vede ugualmente popolazioni inermi e strutture sanitarie prese di mira. Lo Yemen, che era già il Paese più povero della penisola araba, è sconvolto dalla guerra civile da quando, nel settembre del 2014, i ribelli sciiti Huthi si sono impadroniti della capitale Sanaa. Come risposta, dal marzo dello scorso anno l'Arabia Saudita ha lanciato una grande operazione militare, in coalizione con altri Paesi sunniti, per tentare di rovesciare gli equilibri sul campo. I raid sono ripresi in modo intenso negli ultimi giorni in seguito all'ennesimo fallimento dei colloqui di pace in Kuwait sostenuti dall'ONU . Dopo il quarto bombardamento in meno di un anno, in cui hanno perso la vita 19 persone, Medici senza frontiere ha deciso di evacuare il suo staff dagli ospedali che sostiene nel nord del Paese. Negli ultimi mesi MSF aveva incontrato più volte la Coalizione saudita, affinché fosse garantita l'assistenza umanitaria e medica agli yemeniti e per avere la certezza che gli attacchi contro le strutture sanitarie sarebbero cessati. Tuttavia i bombardamenti aerei sono continuati e la situazione nel Paese è diventata insostenibile. Ad aggravare il già difficile contesto si aggiunge la presenza di Al Qaeda e dello Stato islamico sul territorio.

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Quella dello Yemen è una storia complessa. Un Paese povero, devastato dalla guerra scatenata dai sauditi che hanno preso di mira i quartieri residenziali, gli ospedali, le scuole e le moschee. Obiettivi civili, che hanno portato alla morte di almeno 6.500 persone, facendo oltre 31 mila feriti e 2.8 milioni sfollati. 370 mila sono i bambini che – secondo l'Unicef – rischiano di morire di fame. Le recenti vicende affondano le radici nella primavera araba del 2011 che ha portato alla cacciata del presidente Saleh, accusato di corruzione, e all'ascesa del suo vice Mansour Hadi. Dopodiché c'è stata la Conferenza del dialogo nazionale che ha riunito – per due anni – i delegati di tutte le fazioni – anche quella del presidente uscente ma non Al Qaeda – per discutere la bozza di una nuova Costituzione. In previsione c'erano anche le riforme per garantire maggiori diritti alle donne e vietare il matrimonio delle bambine, ma non l'autonomia richiesta dalla minoranza sciita Huthi della città settentrionale di Saada, dove maggiori sono le infiltrazioni salafite provenienti dalla vicina Arabia Saudita. Per questo motivo a settembre di due anni fa i ribelli Huthi sono scesi sulla capitale Sanaa.

La rabbia di Riad

I sauditi non potevano però tollerare che nella vicina repubblica yemenita si instaurasse un Governo sciita da cui avrebbero potuto trarre esempio gli sciiti sauditi (il 15 per cento della popolazione) nella regione orientale di Al-Qatif ricca di petrolio. Per lo stesso motivo i sauditi avevano già soffocato la primavera araba del Bahrein, inviando i carri armati a Manama, approfittando della «causeway», l'autostrada sul mare costruita a questo scopo a metà degli anni Ottanta. I vertici di Riad temono l'egemonia iraniana, ma devono fare i conti anche con l'insoddisfazione che serpeggia all'interno dell'Arabia Saudita dove la metà della popolazione ha meno di 25 anni e due terzi è al di sotto dei trent'anni, la disoccupazione giovanile (nella fascia d'età 15-24) è al 30 percento. Ma torniamo allo Yemen. Nel marzo 2015 Riad ha raccolto attorno a sé una coalizione sunnita e iniziato a bombardare. Sono passati cinquecento giorni, i colloqui di pace sono falliti tre volte (gli ultimi lo scorso 6 agosto), e oggi la situazione è sempre più intricata perché quella in Yemen non è solo una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran, in cui peraltro Teheran non ha inviato soldati a sostegno dei ribelli Huthi e quest'ultimi si sono alleati al Partito del Congresso del popolo dell'ex presidente Saleh, un tempo loro acerrimo nemico e ora utile alleato perché ancora controlla le forze di sicurezza.Le diverse fazioni si muovono come in una partita di scacchi, una mossa dietro l'altra: il 28 luglio il presidente Mansour Hadi ha dichiarato di aver venduto 3 milioni di barili di greggio; il giorno dopo gli Huthi e il Congresso del Popolo hanno firmato un accordo politico per governare e quindi gestire le risorse del Paese; poi la coalizione guidata dai sauditi ha bombardato una scuola yemenita, un ospedale di Medici senza frontiere e una fabbrica di patatine; in risposta, l'alleanza Huthi-Saleh ha stretto un'alleanza con Mosca, permettendo ai russi – che nel 2015 hanno impedito l'embargo alla vendita di armi agli Huthi e in questi 16 mesi di guerra hanno mantenuto aperta la sede diplomatica di Sanaa – di utilizzare le basi militari yemenite.

La complicità dell'Occidente

In tutto questo marasma, un certo Occidente è complice perché Riad è il miglior cliente al mondo delle industrie belliche (non solo americane): compra le armi, le usa e quindi le ricompra. Gli Stati Uniti, per esempio, forniscono ai sauditi intelligence e hanno autorizzato, nel 2010, forniture militari per 110 miliardi di dollari anche per gli F-15, gli elicotteri d'attacco Apache, le navi militari, i sistemi di difesa missilistica Patriot. Di fatto, negli ultimi sei anni l'amministrazione Obama ha concluso accordi per la vendita di circa 48 miliardi di dollari di armamenti, il triplo rispetto all'epoca di George W. Bush. L'ultimo contratto risale allo scorso 9 agosto, quando il Dipartimento di Stato americano ha approvato la vendita ai sauditi di 1.15 miliardi di dollari di armi, tra cui 153 carri armati Abrams.

Un conflitto silenzioso

La guerra ha stremato la popolazione yemenita, invisibile all'opinione pubblica occidentale perché i sauditi hanno distrutto gli aeroporti e, con il blocco navale, impediscono di scappare via mare. Bisognerà aspettare la fine dei bombardamenti prima di rimettere in cantiere le riforme di cui avevano discusso i delegati della Conferenza del dialogo nazionale all'indomani della primavera araba. Tra le proposte, in linea con le convenzioni internazionali ma in stand-by a causa del conflitto in corso, vi sono il diritto della divorziata a mantenere l'abitazione dove vive con i figli, l'istruzione e le cure sanitarie, il diritto delle donne ad occupare il 30 per cento delle cariche istituzionali, la norma che considera reato la violenza domestica, la messa fuori legge dei matrimoni delle bambine, che muoiono dissanguate per le ferite interne dopo la prima notte di nozze. Per tutto questo bisognerà aspettare.

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