Chi odia l’Europa

I media statunitensi si sono accorti dei Mig e dei droni che minacciano il fianco Est della NATO con 48 ore di ritardo, dopo di che il teledipendente Trump ci ha scherzato su con un tweet, «ci siamo!», per poi definirli dei «possibili errori». Questo andazzo di tutti i giorni rispetto alle sorti del Vecchio continente ha senza dubbio trovato un buon terreno nella diffusa indifferenza -e ignoranza- americana verso il Mondo esterno. L’attuale amministrazione repubblicana ne ha comunque fatto da subito una delle sue linee principale di politica militare e commerciale del «mettere l’America al primo posto»; in aperta opposizione all’Unione Europea, creata d’altronde secondo il credo trumpiano con l'esclusivo obiettivo di «acquisire vantaggi nel commercio con gli Stati Uniti». Gli Europei essendo tutti, all’origine, degli «orribili parassiti scrocconi» della generosità americana, commisurata semplicemente al disavanzo commerciale nei loro confronti.
La maleducata violenza riservata a Zelensky da Trump e il suo vice Vance poco dopo il loro arrivo alla Casa bianca, condita dalle solite grossolane falsità sul ruolo preminente degli USA nella difesa dell’Ucraina, è stata in fondo uno sfogo d’astio antieuropeo dell’attuale dirigenza di Washington. Già in febbraio, l’intellettuale della presidenza Vance aveva approfittato della Conferenza sulla sicurezza di Monaco solo per dar fiato alla sua accusa verso gli Europei d’aver messo a rischio «la libertà di parola» (della Silicon Valley) e «tradito i valori comuni» (il postliberalismo). Comunque, a una soluzione «ragionevole» del conflitto ucraino «ci stiamo pensando noi», dicono alla Casa bianca, dato che un coinvolgimento europeo, secondo l’immobiliarista negoziatore polivalente Witkoff, non sarebbe «realistico».
In difesa della società cristiana tradizionale, Vance, l’erede in pectore di Trump interviene regolarmente, prendendo ad esempio l’ungherese Orban, contro il «demone» delle istituzioni dell’UE. Quest’ultima è il vero avversario ideologico dell’America di Trump (più che i singoli Paesi dell’Unione, che richiederebbero un discorso differenziato e delle conoscenze dalle quali l’amministrazione trumpiana orgogliosamente rifugge) poiché mette la libertà democratica dei suoi cittadini al primo posto e cerca di proteggerli dal dominio digitale americano. Salvo poi quando a Musk e compagni conviene intervenire nelle politiche interne dei singoli Stati sostenendo platealmente i movimenti e personaggi antigovernativi più sovranisti del populismo euroscettico di destra.
Il guru del «conservatismo nazionale» Steve Bannon s’attribuisce persino il merito d’aver fatto di Farage, Le Pen e Wilders delle rock star di una «guerra civile» contro l’Islam radicale e vede nella Roma della coppia Meloni-Salvini il «centro della politica populista mondiale». Lo scopo rimane da anni quello di «destabilizzare l’ordine liberale europeo» formando un «super gruppo» che prenda il potere a Bruxelles, bloccando l’UE e disgregando il Vecchio Continente, visto ormai come un rivale della «grande America». Agli Svizzeri, l’animatore di War Room, uno dei più diffusi podcast politici degli USA, riserva invece la qualifica di «banda di corrotti e corruttori».
I dirigenti europei, con alcune eccezioni, come il francese Macron, non hanno finora saputo o voluto raccogliere la sfida di chi persino dalla tribuna della Nazioni Unite li deride, prendendosi gioco delle politiche sui migranti e il clima dell’UE, destinata con tali «pazze idee» ad «andare all’Inferno». Hanno preferito subire, blandire Trump e lusingarlo, consci d’avere a che fare con un incorreggibile vendicativo vanesio. Gli Stati europei -e non autonomamente la Commissione di Bruxelles- continuano a cedere davanti alle imposizioni tariffarie di Washington. Alla NATO, nonostante il suo Segretario Rugge chiami Trump suo «padre», gli Europei non possono più veramente contare assolutamente sull’America ma saranno comunque tenuti a «buy American».
La ragione di questi cedimenti dell’UE davanti all’ostilità dell’amministrazione Trump può senz’altro trovarsi nell’attuale disomogeneità della sua direzione politica, fragilizzata dal sovranismo euroscettico e filotrumpiano di alcuni Paesi del suo fianco Est, con in testa l’Ungheria di Orban. Ma, come ha confessato recentemente Antonio Costa, presidente del suo Consiglio, tutto nasce dalla minaccia russa, che rende il crescendo delle tensioni a causa dei diritti di dogana con un alleato chiave come gli Stati Uniti «un rischio imprudente». Un rischio che corre invece ciecamente, in piena incoerenza strategica, l’attuale amministrazione americana che, davanti all’ormai consolidato «arco del male» che dalla Corea del Nord va alla Russia passando dalla Cina e l’Iran, si sta staccando dai suoi alleati occidentali.
Flavio Meroni
Movimento europeo Svizzera