A chi fa paura la democrazia diretta?

Nel nostro Paese lodare la democrazia diretta è un dovere. O meglio, un obbligo. Una sorta di inchino davanti al Sovrano, non sempre espressione di sincera lealtà. Soprattutto quando viene dai politici, comprensibilmente più interessati alla democrazia rappresentativa, cui debbono il loro potere. Così quando le loro scelte trovano conferma nell'espressione più diretta delle opinioni e del sentire dei cittadini, non mancano di lodare la saggezza di cui il Popolo ha dato prova. Come dire: «hanno capito che noi avevamo ragione». Ma quando il risultato è avverso, pur fra gli immancabili e dovuti inchini, traspare spesso e volentieri un'insofferenza che va oltre il singolo episodio, investendo l'istituto della democrazia diretta in quanto tale. Che si parli di «incomprensione» per la complessità della tematica o più brutalmente di «manipolazione» da parte dei demagoghi di turno, traspare il fastidio tipico delle élites dirigenti messe a confronto con «la massa», in un rapporto viziato dal prevalere dell'aspetto quantitativo (il numero dei votanti) su quello qualitativo (le ragioni degli eletti). Da qui i periodici inviti a introdurre «correttivi» alla ricerca di un «migliore equilibrio» tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Il che significa quasi sempre ridurre il peso della seconda a favore della prima. Questo discorso non va letto – è bene precisarlo – in chiave riduttiva di attualità, facendo coincidere la democrazia diretta con il cosiddetto «populismo», contrapposto alla «ragionevolezza» dell'establishment elettivo tradizionale. Il voto popolare andava benissimo anche a quest'ultimo, quando era espressione di un rapporto di fedele consenso nei confronti delle élites dirigenti. Veniva anzi indicato da queste ultime come la prova irrefutabile della giustezza delle loro scelte. Altrettanto riduttivo sarebbe schematizzare la questione in termini di destra e sinistra. È vero che quest'ultima è spesso più diffidente nei confronti della democrazia diretta rispetto alle destre, nella scia di una cultura politica che non per nulla ha partorito concetti inconfondibilmente elitari come quello di «partito-guida». Quando però un'iniziativa popolare (vedi quella «delle Alpi») incontra i favori della maggioranza, diventa subito un dogma intoccabile, nel nome del Popolo. Atteggiamento questo che si ritrova simmetricamente a destra, quando l'idea stessa di rivotare su una decisione controversa, affermatosi con margini assai esigui (vedi «immigrazione di massa»), è dipinta, alla faccia delle regole costituzionali, come un'intollerabile offesa nei confronti dalla volontà del Sovrano. Il dibattito sulla democrazia diretta va svincolato da queste considerazioni contingenti e partigiane. Non solo perché è e rimane fondamentale nel sistema elvetico, guardato con ammirazione e invidia da molti cittadini dei Paesi a noi vicini, cui non è data la possibilità di esprimersi su singole scelte politiche, anche fondamentali, se non raramente, per «grazia presidenziale» (come in Francia) o con soglie di sbarramento mortificanti (come in Italia). Anche quello svizzero – ci mancherebbe – è un sistema tutt'altro che perfetto e sarebbe un errore fare degli istituti della democrazia diretta, come li conosciamo oggi, un tabù fuori discussione. Fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta è comunque necessario un equilibrio, per sua natura delicato e complesso. Se esso viene meno si rischiano derive opposte, tra le quali l'impasse politica, all'insegna di un visione di corto termine, non è sicuramente da sottovalutare. Come non è da sottovalutare, nell'epoca della iper-comunicazione istantanea, il pericolo di nuove forme di manipolazione, dagli effetti deleteri. Ma queste giustificate preoccupazioni non possono far dimenticare che anche talune scelte degli eletti (cioè da quelle élites che tendono a considerarsi sempre più «illluminate» dei comuni cittadini) hanno prodotto nel corso della storia – recente e meno recente – risultati a volte discutibili, per non dire sciagurati. L'ideale, in una democrazia matura, rimane la ricerca paziente, talvolta travagliata, ma senza deviazioni, di un consenso allargato e condiviso fra eletti e cittadini. Il che non solo preserva un clima sociale positivo e costruttivo, ma rende anche più efficaci le decisioni, poiché radicate nel corpo sociale e quindi tradotte in pratiche sostanzialmente univoche a tutti i livelli. Parafrasando la celebre affermazione di Winston Churchill, si potrebbe dire che la democrazia diretta, fra tutte le forme della democrazia, è forse quella che comporta i maggiori rischi. Ma i sistemi che ne privilegiano altre ne comportano di ben peggiori. E per convincersene, cari concittadini, basta guardarsi intorno.