Allarme smartphone

La dipendenza da smartphone, nefasta per i ragazzi, è diventata ormai una urgenza di società. Ci sono studi e ricerche di specialisti (psicologi, medici) che portano cifre, fatti, danni, allarmi. Basterebbe leggere «Generazione ansiosa», tradotto in italiano da Rizzoli. L’ha scritto Jonathan Haidt, psicologo sociale di grande curriculum accademico, professore alla New York University. Racconta con documentazione precisa l’allarme urgente per gli effetti nefasti dello smartphone (del suo abuso) sulle nuove generazioni. E non parla delle telefonate a voce (innocue e anche vivide) ma del continuo chattare, della giungla delle reti «social», della connessione compulsiva. Con danni evidenti alla salute mentale dei ragazzi. I più fragili pagano di più: depressioni, sbalestramenti di vita. Stiamo allevando una generazione di ragazzi frammentati e sempre altrove. E ne nascono troppi casi di dipendenza grave, come succede per il tabagismo e l’alcolismo. Guardiamoci in giro: tantissimi giovani che intercettiamo fanno danzare tutto il tempo fra le dita sottili il loro cellulare lucido, ne fanno una terza mano, un radar permanente, un feticcio. Sono connessi ma soli. Abbassano lo sguardo sullo schermino e non lo alzano sulla realtà che li circonda. Intendiamoci: un’invenzione tecnica nuova, se funziona, è fatta per essere usata. È successo per il treno, per l’automobile, per la radio e la televisione, per l’invenzione della stampa. Però bisogna pur dire che se per alcune cose non c’è il rischio di dipendenza (nessuno è drogato di treni, nessuno è drogato di libri) per altre invece c’è (ci si può drogare di televisione, di Internet). Certe invenzioni hanno più controindicazioni di altre. Ho parlato con alcuni psicologi e psicoterapeuti impegnati sul campo con adolescenti difficili. Anche loro riconoscono e temono i danni indotti dall’abuso dello smartphone e dicono che i genitori dovrebbero da subito, sin da quando i bambini sono piccoli, creare un cordone sanitario che li preservi il più possibile dal rischio di quella dipendenza. L’abuso di cellulari irretisce alcuni moti naturali della psicologia umana, come per esempio quello che possiamo definire il vagabondaggio della mente, dei pensieri liberi. Ogni tanto fa infatti bene lasciarsi andare ai propri pensieri, cucendo insieme le proprie trame soggettive, quelle dei propri vissuti, che si depositano sulla memoria e attraverso di essa uno si sente coeso con ciò che accade attorno a lui, si sente dentro la realtà, non separato da essa. Ma quegli stessi psicoterapeuti - e qui ecco un punto interessante - mi hanno anche detto che una condanna totale e indignata degli smartphone senza nessun approccio critico può diventare solo un luogo comune. E mi hanno sorpreso citando anche alcuni risvolti positivi della comunicazione digitale: esiste anche l’esperienza effettiva sul campo, dove si insinua il fattore umano, e l’incontro virtuale può avere talvolta un suo spessore utile. È capitato, per esempio di fronte a ragazzi molto problematici, di scoprire come l’uso delle chat si sia rivelato persino terapeutico: adolescenti che avevano gravi problemi comportamentali erano riusciti, chattando con coetanei sconosciuti, a trovare una confidenzialità che non erano sino a lì riusciti ad avere di persona; e hanno poi trovato, grazie a questa esperienza, nuovi rapporti reali. E a stare meglio. Tutti gli strumenti, insomma, anche la comunicazione elettronica, possono aiutare a uscire dal guscio quando la socializzazione diventa difficile. E del resto, se dei genitori, di fronte alla richiesta di un adolescente di avere un telefono cellulare negassero recisamente il permesso, procurerebbero al ragazzo o alla ragazza il rischio di mancare l’aggancio alla necessaria socializzazione con i compagni, ormai quasi tutti muniti di smartphone. Una via virtuosa potrebbe dunque essere quella di una apertura agli smartphone in mano ai ragazzi ma con vigilanza e soprattutto condivisione. Ovvero riuscire a farsi raccontare dai ragazzi quello che fanno, aiutarli a riflettere proprio su questa possibile dipendenza. A farne un’esperienza narrativa. Se racconti una cosa, anche un problema, la rivedi, la rielabori, la liberi: il giornalista italiano Aldo Cazzullo, un po’ seccato di vedere i suoi due figli adolescenti così dipendenti dallo schermino, gliel’ha scritto: «Non è possibile che ovunque si vada, all’estero o in Liguria dai nonni, voi due portiate dietro il vostro piccolo mondo, chiuso nel telefonino. Vi ricordate quella gita in Provenza? I campi di lavanda in fiore erano bellissimi; ma voi non li guardavate, eravate sempre chini sui cellulari. Vi ricordate domenica scorsa dai nonni? Eravate assenti, distanti, tutti presi dallo smartphone. Ed è un peccato, perché l’amore a cerchio di vita tra i nonni e i nipoti è meraviglioso». I due figli hanno ribattuto, si è avviato un dialogo: i tre hanno deciso di scrivere un libro a sei mani, «Metti via quel cellulare» (Mondadori). Ecco: raccontare l’esperienza è già un modo per impossessarsi della propria libertà e per generare un giudizio.