Area euro: no Grexit, no Italexit

Le elezioni in Grecia, con la vittoria della europeista Nea Dimokratia, e la nuova retromarcia dell’Italia a Bruxelles sulla questione dei conti pubblici stanno segnando in questi giorni la scena dell’area euro. Si tratta di due passaggi significativi, che confermano quanto sia facile delineare a parole l’esplosione della moneta unica europea e quanto poi sia invece difficile che nei fatti ciò avvenga.
Le previsioni sulla fine dell’euro ormai non si contano più, ma a vent’anni dalla nascita la moneta unica c’è ancora ed ha ampliato il numero di Paesi membri. Pur tra innegabili difficoltà, l’euro è andato avanti e questo alla fine vorrà pur dire qualcosa. La moneta unica può piacere o no, ma fa parte del panorama e garantisce in campo europeo una stabilità valutaria di cui è molto difficile fare a meno. D’altronde, guardando alle latitudini elvetiche, anche alla Svizzera conviene che l’euro rimanga, perché un’instabilità valutaria creerebbe ulteriori scompensi economici e spingerebbe ancor più in alto un franco che per alcuni aspetti è già troppo forte.
Nel luglio 2015 una possibile Grexit, un’uscita della Grecia dall’euro, occupava un’ampia parte delle cronache economiche in Europa. La vittoria del no alle misure UE e BCE nel referendum voluto dal premier Alexis Tsipras aveva fatto crescere le probabilità della Grexit. In realtà, di lì a poco lo stesso Tsipras si rese protagonista di una clamorosa inversione di marcia, con l’accettazione delle misure di Bruxelles. E nei quattro anni successivi il Governo di sinistra di Syriza ha poi garantito l’attuazione di buona parte di quelle misure, sino alle elezioni di domenica scorsa e al passaggio del testimone al Governo di centrodestra di Nea Dimokratia, che segna anche la scomparsa definitiva di ogni ipotesi di futura Grexit.
Atene non ha alternative valide all’euro e ai parametri sui conti pubblici che la moneta unica richiede - almeno in linea di tendenza - di rispettare. La Grecia ha intaccato da sola la sua economia per decenni, si è creata un enorme debito pubblico ed è stata salvata con i soldi dei contribuenti dei partner europei. Il fatto che una parte di questi soldi siano andati alle banche creditrici non cambia la sostanza, a chi dovevano infatti andare quei soldi se non ai creditori, che hanno tra l’altro rinunciato a una porzione dei loro crediti? Atene con un’uscita dall’euro e un ritorno alla dracma non avrebbe risolto i suoi problemi, li avrebbe anzi aggravati con un’inflazione alta, tassi di interesse elevati, un debito in euro ancora più mastodontico. Tsipras non ha adottato “ferrei piani austerità”, come è stato scritto; ha seguito realisticamente, seppur con qualche resistenza strada facendo, l’unica via possibile sul versante del risanamento economico, ottenendo alcuni risultati.
Secondo dati e previsioni del Fondo monetario internazionale (FMI), il debito pubblico/PIL era nel 2014 in Grecia pari al 180,2% e sarà alla fine di quest’anno al 174,2%. La crescita economica greca era dello 0,7% nel 2014 (dopo anni di discesa) e sarà quest’anno al 2,4%. La disoccupazione era al 26,5% nel 2014 e sarà al 18,1% quest’anno. C’è ancora da fare, in Grecia rimangono molti problemi economici e sociali, ma le cifre mostrano che quel po’ di rigore che è stato introdotto ha portato miglioramenti, occorre dunque proseguire. Il nuovo premier Kyriakos Mitsotakis ha detto di voler puntare su privatizzazioni e tagli alle imposte e questi sono due buoni punti, ai quali però occorrerebbe aggiungerne almeno altri due: che vi siano anche altre riforme economiche per recuperare efficienza nel sistema Paese; che si continui nella riduzione delle spese pubbliche improduttive, altrimenti la spirale dell’indebitamento rischia di ricrearsi. In ogni caso Mitsotakis sa, ancor più di Tsipras, che la Grexit va evitata.
La vicenda italiana dal canto suo mostra ancora una volta come i proclami contro l’UE e l’Eurozona non vadano lontano. La procedura di infrazione sul debito pubblico (che era al 132,1% del PIL nel 2018, secondo l’FMI) è stata evitata facendo ciò che era inevitabile: mettendo a bilancio alcuni miliardi di minori spese e di maggiori entrate e impegnandosi a contenere debito e deficit anche per il 2020. Già l’anno scorso, d’altronde, l’Esecutivo Lega–5 Stelle aveva dovuto accettare un deficit pubblico minore rispetto a quello annunciato a gran voce. La futura Italexit ventilata in area Lega (anche in area 5 Stelle, ma meno) appare sempre più improbabile. Contrasti tra il Governo sovranista-populista italiano e Bruxelles ce ne saranno ancora, ma i ministri più accorti dell’Esecutivo di Roma sanno – come buona parte dell’opinione pubblica – che un’uscita dall’euro avrebbe pesanti svantaggi. Come e più che per la Grecia, considerando le maggiori dimensioni dell’economia italiana. Un conto sono le parole, un conto sono i fatti.