Behrami: un giocatore con più sfumature, un uomo con meno sorrisi

Valon torna a casa. Anche se in qualche modo facciamo fatica a legare la sua immagine a quella del Lugano, a quella di Cornaredo. Da qui è partito, di qui è passato, qui per un paio di partite tornerà a giocare con un’altra maglia. Anche se mai ha tagliato il cordone ombelicale che tuttora lo lega al Ticino, tutt’altro, mai neppure ha dato la sensazione di provare, per questa piazza calcistica, un particolare trasporto, che vada al di là della simpatia. Magari la sente ancora in pancia, per quello che ne sappiamo. Magari domenica proverà un brivido, una strana sensazione, la voglia di entrare, ancora una volta, dopo tanto tempo, nello spogliatoio alla destra della tribuna, e da lì poi uscire e fare l’ingresso in campo vestito di bianconero. Ma abbiamo dei dubbi, anche perché lui sulle emozioni ha lavorato molto, lungo la sua intera carriera – una carriera da quattro Mondiali –, come a volerle tenere a bada, a contenerle, o quantomeno a canalizzarle. Ha lavorato su ciò che i calciatori amano definire, con avventuroso gergo, «il mentale». Valon era partito da Cornaredo con addosso l’etichetta del centrocampista grintoso, per qualcuno era addirittura un terzino. L’identità ancora non era chiara, non a tutti. Ma al di là del ruolo, quella etichetta, la grinta e poco altro, se l’è tenuta addosso a lungo. Qualcuno ancora oggi lo legge così, un giocatore grintoso – che poi anche la grinta ora ha cambiato forma e i telecronisti utilizzano il termine «garra», che fa più internazionale, più Sudamerica – Ma lui non è più quella roba lì, non solo. La sua evoluzione vale una definizione più accurata, meno superficiale, che non implichi soltanto una caratteristica. Valon Behrami, per intenderci, è davvero quel giocatore che impedisce alla squadra avversaria di segnare, tuffandosi a corpo morto in difesa della propria porta, e che poi, resistendo a una carica e a una caduta, rilancia quella stessa azione fino ad arrivare alla porta avversaria, al gol, al 2-1 all’Ecuador al 93’. Ma è anche altro. E a ben vedere, a far pensare di quello stesso momento magico è il fatto che lì, all’altezza del dischetto del rigore, davanti a Sommer, sì, proprio lì dove la palla era arrivata, c’era lui. Posizionato dove doveva essere. Ed era il 93’ di una partita tirata, faticosissima, una partita di un Mondiale. Ecco, l’evoluzione di Behrami è sì legata agli aspetti mentali, ma è soprattutto tattica. Con il passare degli anni, complici in fondo anche troppi infortuni, Valon si è fatto mediano di saggezza, non di piedi fini o di palleggio – e solo in questo senso, per la nazionale, la sua sostituzione, tanto discussa, può essere vissuta come un eventuale passo in avanti –, ma soprattutto di posizionamento, un equilibratore. Nessuno lo avrebbe definito tale, ai tempi della sua partenza da Lugano. Dicevano che era generoso, che aveva fame, e legavano quella fame alle sue origini, alla sua storia. Qualcosa di vero forse c’era, c’è. Ma a un certo punto la generosità, se non controllata, rischia di diventare dannosa, solo una fonte di confusione, di disordine, in campo, nello spogliatoio, ma anche tra le proprie idee. L’istinto di Valon ha quindi preso un’altra direzione, non addomesticato ma quasi. È rimasto istinto, possente, ma si è arricchito di qualche sfumatura. Certo, la spontaneità ha trovato un freno, rafforzato anche dalle esperienze oltre confine – dove la difesa della propria intimità è obbligata –, e si è fatta più pungente, appunto difensiva. Poche le concessioni, poche le aperture. Quello è anche carattere, ma non solo. All’epoca lo si vedeva sorridere più spesso, più volentieri, di fronte al mondo. Ora forse quel sorriso lo vedranno soltanto le persone all’interno del suo cerchio magico, che da fuori – ma anche per stessa ammissione di Valon – appare sempre più ristretto.