Burger King sotto le bombe: la strategia social di Netanyahu

C’è un fotogramma, nella recente intervista di Benjamin Netanyahu al podcast americano Full Send, che sembra uscito da un manuale di comunicazione distopica: mentre a Gaza decine di migliaia di persone sopravvivono alla fame, il premier israeliano — sotto mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra — sorride e spiega di preferire Burger King a McDonald’s.
Non si tratta di una svista. Netanyahu è stato ospite dei Nelk Boys, due influencer canadesi noti per scherzi e facili battute, con oltre 8,5 milioni di iscritti su YouTube e un seguito prevalentemente giovane, maschile e di orientamento conservatore. Un contesto studiato a tavolino per evitare domande scomode: nessun contraddittorio di fronte alle risposte più assurde, nessuna verifica dei dati, nessuna replica. L’unico momento in cui i due conduttori hanno dissentito è stato quando Netanyahu ha espresso la sua preferenza per Burger King: «È la tua opinione peggiore finora», ha commentato uno dei due. Nessuna obiezione, invece, alle dichiarazioni secondo cui la colpa della fame a Gaza sarebbe solo di Hamas, o all’idea che la repressione israeliana rappresenti la difesa del mondo libero.
Questo episodio è il simbolo di una tendenza crescente: bypassare i media tradizionali per parlare direttamente a target selezionati, sfruttando l’appeal di piattaforme «amichevoli» dove la presenza del potere non viene interrogata, ma amplificata. Non è solo colpa dei media tradizionali — che pure hanno responsabilità nella marginalizzazione di certe voci e nella riproposizione di frame consolidati — ma è soprattutto il frutto di una strategia consolidata da parte di molti leader, che rifiutano domande non controllabili, chiedono di vedere in anticipo le risposte, o semplicemente si negano a chiunque osi metterli in difficoltà. Appiattendo, se non annullando, il dibattito democratico.
Il vuoto lasciato da questa ritirata viene in parte riempito da un’altra informazione: quella che passa sui social network, nei reel e nei post degli attivisti, nei canali indipendenti, nelle immagini che arrivano da Gaza. Ospedali devastati, bambini denutriti, aiuti umanitari ostacolati, convogli bloccati. Una narrazione dal basso, frammentata e spesso disordinata, ma capace di smuovere un’opinione pubblica globale che — per la prima volta su larga scala — mostra un’indignazione trasversale, soprattutto tra i più giovani. Una reazione che in alcuni casi si trasforma in mobilitazione concreta, in altri in una radicale sfiducia verso ogni narrazione istituzionale. Ma con un rischio evidente: che accanto alla legittima critica si insinuino derive antisemitiche, che nulla hanno a che vedere con la condanna delle politiche israeliane e finiscono per colpire indiscriminatamente persone e realtà estranee al conflitto.
L’intervista ai Nelk Boys non è solo una caduta di stile. È il sintomo di una crisi profonda, dove la comunicazione politica si riduce a marketing, e l’immagine sostituisce la sostanza. Netanyahu non è nemmeno particolarmente abile nel linguaggio popolare: è il vuoto di chi dovrebbe incalzarlo — e invece lo accoglie come un trofeo, accettando qualunque affermazione pur di avere visibilità e ospitare personaggi di spicco — a trasformarlo in voce unica. È la legittimazione ottenuta non per autorevolezza, ma per mancanza di alternative. E così, un genocidio riconosciuto e denunciato da organismi internazionali diventa materia da talk digitale, da storytelling emozionale, da intrattenimento algoritmico.
Il vero pericolo non sta nella battuta sbagliata. Ma nella possibilità, concreta, che ci si abitui. Che la guerra diventi un rumore di fondo, un effetto visivo in mezzo alla nostra timeline. Che ci si persuada che il potere non ha più l’obbligo di spiegarsi, né di confrontarsi. E che la realtà, qualunque essa sia, possa sempre essere raccontata in modo diverso — o semplicemente ignorata.
Se accettiamo questa normalizzazione, se ci sembra normale che chi guida un Paese in guerra rida in uno studio mentre la sua artiglieria affama civili, allora la vittoria di Netanyahu è già compiuta. Non sul campo di battaglia. Ma dentro le nostre coscienze.