Celebrare il poeta rileggendo la «Commedia»

Sono spesso un po’ discutibili e non sempre riescono come erano stati immaginati. Vuoi perché cadono nel momento storico sbagliato, vuoi perché vengono percepiti come sproporzionati, superficiali o poco spontanei. Gli anniversari culturali con cui, volenti o nolenti, ci troviamo ciclicamente tutti a fare i conti hanno poi la caratteristica costante di deludere o dividere proporzionalmente all’importanza del personaggio celebrato e all’unicità dell’anniversario, rischiando di lasciare alla fine l’amaro in bocca dell’irripetibile occasione sprecata o il retropensiero perplesso sulla reale utilità di taluni faraonici e persino pletorici omaggi. Emblematico è il caso del rotondissimo appuntamento dantesco di quest’anno sul quale (anche se il culmine cadrebbe alla metà di settembre quando il Sommo Poeta andò fisicamente a verificare l’attendibilità di quanto aveva scritto) è già possibile formulare qualche considerazione.
L’occasione liturgico-civile sacrosanta per tutte le società costituite (che nel caso del «ghibellin fuggiasco» travalicano ovviamente i confini politici italiani) che si trovano a giusta ragione nell’obbligo di ricordare, esaltare ed onorare le figure imprescindibili della propria storia (qui massimamente culturale e linguistica) si affianca al mero pretesto mediatico della «riproposta dantesca» che rischia di rimanere presto lettera morta. Come avvertiva caustico Franco Cardini in una delle più intelligenti interviste della serie che abbiamo pubblicato nei mesi scorsi non è che «tutto questo gran parlare che si fa di Dante ovunque si sia tradotto in approfondimento e ampliamento della conoscenza del poeta nella società civile». Insomma tutti (e in maniera qualche volta imbarazzante anche nel nostro microcosmo proprio «tutti») hanno voluto dire la loro su messer Durante. Con risultati un po’ spiazzanti. Certo in questi casi meglio il troppo del troppo poco. Dell’enorme messe di saggi divulgativi o specialistici (molti dei quali, intendiamoci, di valore assoluto), ricerche, pubblicazioni, manifestazioni, documentari, convegni, conferenze, film, sceneggiati, videogiochi, applicazioni digitali e compagnia bella dedicati alla figura e all’opera del Sommo Poeta qualcosa, ne siamo sicuri, resterà nel tempo. Pochi però hanno invocato l’unica vera strada per evitare che nel 2121 o anche soltanto nel 2065, quando saranno gli 800 anni dalla nascita, di quello strano personaggio col nasone e le foglie di alloro in testa non rimanga soltanto qualche fredda nota enciclopedica suggerita da appositi e anodini algoritmi: leggere e rileggere la Commedia.
Nella sua, consigliatissima, Conversazione su Dante (pubblicata nel 1932) lo sventurato letterato russo Osip Mandel’ štam spiega come la potenza del verso dantesco non possa che provenire dal futuro ma è evidente che se perderemo la capacità di leggere, studiare, interrogare e apprezzare quello che, parola di Borges, è il «miglior libro scritto da mano umana», molto presto di Dante rimarrà ben poco. Apprezzabile, trascurabile o superfluo che sia, tutto l’impegno di contorno per spiegarci l’importanza letteraria, storica e culturale del grande fiorentino va benissimo ma sarà solo sforzandoci di tornare a leggere le tre cantiche della Commedia che avremo dato davvero un senso alle celebrazioni di questo magniloquente settecentesimo. Ed è importante sottolineare il concetto di «leggere» proprio nel senso della lettura cosiddetta endofasica, quella mentale, silenziosa, interiore con cui Sant’Ambrogio (tra i primi a praticarla) sconcertava il giovane Agostino di Ippona che ce ne rende ammirata testimonianza nelle sue celeberrime Confessioni.
La forza della Commedia è infatti tale da rifuggire le mediazioni; per funzionare deve parlare direttamente al nostro intimo e al nostro intelletto, senza filtri che ne alterino la percezione. A prescindere dalla qualità, spesso eccelsa, del mediatore, ci stiamo via via abituando a recepire le sia pure formidabili e utilissime (se non ci si ferma lì) letture dantesche come se ascoltassimo una giaculatoria in una lingua solo lontana parente della nostra. In attesa spasmodica, nei casi migliori, dell’endecasillabo proverbiale, quello tanto chic da citare (magari a sproposito) alla prima occasione. È vero: come non esaltarsi ascoltando un Giorgio Albertazzi, un Carmelo Bene, un Vittorio Sermonti? E persino un ipotetico abitante di Alpha Centauri del tutto ignaro delle odissee vicende si scuoterebbe sentendo Gassman attaccare con «Lo maggior corno de la fiamma antica» o si emozionerebbe fino alle lacrime cadendo con Benigni «come corpo morto cade» alla fine del V dell’Inferno. Eppure tutta questa bellezza non basterà. La Commedia non va recitata o declamata, va semplicemente letta. Un grande polemista culturale troppo presto dimenticato come Franco Fortini diceva che Dante esige «fatica e solitudine». Forse è per questo che è difficile, anche in un anno così speciale, farlo tornare di moda.