L’editoriale

Cesare Battisti e i compagni che uccidono

L’editoriale di Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
15.01.2019 06:00

L’arresto in Bolivia, il trasferimento e la reclusione in Sardegna dell’ex terrorista Cesare Battisti chiudono un capitolo, uno dei più infami, degli anni di piombo che hanno così duramente e così dolorosamente segnato la storia d’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Non chiudono, purtroppo, il libro. Troppi assassini e troppi loro complici, che avevano vagheggiato la rivoluzione con la violenza sanguinaria in nome della lotta di classe, restano in libertà, fuori dei confini di casa, sottraendosi al corso della giustizia nonostante i gravissimi crimini perpetrati. Uno è cittadino libero qui da noi. Esponente dei PAC (Proletari armati per il comunismo), Battisti ha sulla coscienza quattro omicidi, per i quali è stato condannato in via definitiva, con sentenze cresciute in giudicato in Cassazione, a due ergastoli e svariati anni di carcere: il 6 gennaio 1978 a Udine l’uccisione del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro; il 19 aprile 1979 a Milano l’uccisione dell’agente della Digos Andrea Campagna (questi due crimini sono stati compiuti di persona da Battisti); il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala (Venezia) l’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, militante dell’MSI, che aveva reagito ad una rapina nel suo negozio sparando e uccidendo uno degli assalitori (in questo attentato Battisti assicurò la copertura armata all’esecutore materiale dell’omicidio); infine il 16 febbraio 1979 a Milano l’uccisione del gioielliere Pierluigi Torregiani (Battisti non era sul luogo del crimine, ma fu condannato quale corresponsabile nell’ideazione e nell’organizzazione dell’agguato, in cui il figlio del gioielliere, Alberto, rimase ferito e paralizzato: vive da allora sulla sedia a rotelle). L’ex terrorista ha compiuto diversi altri reati, ma questi quattro sono i più gravi. Dopo una condanna in prima istanza a 12 anni per possesso illegale di armi da fuoco, banda armata e associazione sovversiva, il 4 ottobre 1981 evase dal carcere di Frosinone. Non si presentò più davanti ai tribunali italiani e venne quindi sempre condannato in contumacia. La sua latitanza – come quella di non pochi altri terroristi di estrema sinistra e fiancheggiatori o teorici della rivoluzione proletaria, a vario titolo implicati nei reati compiuti durante gli anni di piombo – è stata favorita dalla cosiddetta dottrina Mitterrand, una fra le rare pagine vergognose della lunga carriera politica del compianto presidente socialista. Secondo tale dottrina, applicata per un ventennio, dal 1982 e al 2002, la Francia si rifiutava di concedere l’estradizione di «rifugiati italiani che hanno preso parte ad azioni terroristiche prima del 1981, hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese», come disse Mitterrand. Un’aberrazione dal profilo dello Stato di diritto, un insulto al senso di giustizia, un’offesa irreparabile alle vittime del terrorismo e ai loro parenti, una pericolosa deriva politico-ideologica che ha contribuito a legittimare per troppi anni i terroristi e i loro fiancheggiatori, protetti e perfino coccolati da ambienti intellettuali conformisti, ritardando la sconfitta definitiva dell’eversione nata e cresciuta in quella cupa stagione. Cesare Battisti è il prototipo del terrorista freddo e irriducibile, ma viscido e ambiguo che, grazie a non comuni capacità intellettuali, riesce ancor oggi a mascherare il suo violento passato avvolgendolo nelle nebbie del dubbio instillato nelle menti altrui. Ha sempre contestato qualsiasi responsabilità per le uccisioni, ammettendo solo reati minori, con la giustificazione della distorta ideologia che ha guidato le sue azioni criminose. Negare, negare sempre, anche di fronte all’evidenza: una tattica che gli ha garantito anni di libertà e di protezione sotto le mentite spoglie del rifugiato politico, dell’esiliato, presunta vittima di (inesistenti) persecuzioni da parte dello Stato italiano. Ora la lunga vacanza dalla giustizia è finita. Per lui; non per tanti altri ex terroristi che hanno sfruttato fino in fondo le scappatoie illegittime aperte da governi strabici e accondiscendenti. Oppure che hanno avuto altre fortune. Come Alvaro Lojacono, poi Baragiola, l’ex brigatista rosso inizialmente riparato anch’egli in Francia e in Brasile, poi giunto indisturbato in Ticino grazie alla parentela, al nome materno, all’incredibile doppiezza e abilità nel nascondere a tutti la sua truce storia. Protetto dal passaporto rossocrociato, è stato processato e condannato qui per un reato di terrorismo. Ha scontato la pena. Avrebbe dovuto rispondere anche per la strage di via Fani, in un processo che tuttavia non è mai stato celebrato (né mai – evidentemente – lo sarà). Per questo il libro degli anni di piombo rimane aperto. A volte qualche capitolo si chiude. Ma ce ne sono ancora troppi in attesa della parola fine.

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