Che belli i Giochi sull’arca di Noè

Un giorno gli dei dell’Olimpo ordinarono a Noè di costruire un’arca per preservare i valori più puri dello sport, salvaguardando la spontaneità da un diluvio di banalità e frasi fatte. Siamo fortunati: su quell’imbarcazione, insieme a Noè Ponti, sono saliti anche gli altri ticinesi presenti a Tokyo 2020. Ajla Del Ponte, Filippo Colombo, Ricky Petrucciani, Michele Niggeler. Tutta gente molto sveglia, moderna, istruita, brava nel raccontarsi, nel condividere con il pubblico le emozioni, gli aneddoti, le gioie, le delusioni, le paure. Ventenni determinati, consapevoli del loro potenziale e delle loro responsabilità. Ragazzi e ragazze con la testa sulle spalle, sempre lucidissimi nell’analizzare le loro prestazioni e spiegarle al pubblico a casa. Complimenti per la trasmissione.
Noè Ponti, però, ha un modo unico di comunicare, di essere giovane campione. Non sappiamo cosa riuscirà a combinare stanotte nella finale dei 100 metri delfino, alla quale si è qualificato con l’ennesimo record nazionale e il terzo tempo assoluto delle semifinali. Medaglia o no, il ragazzone del Gambarogno ha già stravinto le sue Olimpiadi, sia a livello sportivo, sia a livello mediatico. Gara dopo gara, ha conquistato tutti, anche chi il nuoto lo frequenta poco o nulla. Ajla era già famosa, popolare e amata per quel raro mix di simpatia e talento, semplicità e straordinarietà. Noè, invece, era materia per esperti fino a una settimana fa. Chi lo conosceva bene, sapeva che avrebbe brillato. «Ha una determinazione incredibile», ci ha detto un suo docente al liceo di Locarno. Ora Noè è patrimonio di tutti. È emerso dalle acque giapponesi, inondando il Ticino con la sua simpatia, la sua semplicità, i suoi monologhi surreali e irresistibili. Un Enzo Jannacci della piscina. Spavaldamente timido. Spigliatamente impacciato. Ce n’eravamo già accorti parlandoci al telefono, poco prima della sua partenza per Tokyo. Ne abbiamo avuto conferma vedendolo e ascoltandolo a bordo vasca, al microfono di Ellade Ossola. Le sue interviste iniziano spesso con tre parole: «Cosa posso dire?». Poi di cose ne dice tante, alternando battute folgoranti, facce buffe, pause di riflessione che sembrano lasciare le risposte incomplete, sospese. Poi ricomincia a parlare, si guarda intorno, scruta il tabellone, aggiorna i telespettatori sulla sua posizione in classifica. «È andata bene, dai». Sì, Noè, è andata benissimo. Comunque vada.