Tra il dire e il fare

Che cosa fanno i frontalieri

L’impressione del cittadino comune è che non si conosca abbastanza quel che realmente accade nel nostro mercato del lavoro
© CdT/Gabriele Putzu
Alessio Petralli
Alessio Petralli
21.11.2022 06:00

Ma chi sono i frontalieri che a ogni rilevamento aumentano a vista d’occhio? Chi glielo fa fare ogni mattina presto di inscatolarsi uno per macchina per venire a lavorare da noi? E dopo una giornata di lavoro arrivare a casa tardi, con i bimbi che magari dormono già da un po’. Una vita di sacrificio che ha soprattutto una ragione: uno stipendio perlomeno dignitoso che a casa loro non riuscirebbero mai a ottenere.

Ricordiamoci però che le condizioni quadro a cavallo della frontiera possono cambiare radicalmente. Per esempio chi avrebbe mai concepito il «frontaliere ticinese» che va in Italia a far benzina e a comperare sigarette?

Proviamo a immaginare l’edilizia e la sanità ticinesi senza l’apporto dei frontalieri e ci ritroveremmo in uno scenario sconvolgente, che ci metterebbe in ginocchio in men che non si dica!

Attenzione quindi al nuovo accordo fiscale che quando entrerà in vigore, rendendo meno conveniente la vita ai frontalieri, rischia in vari modi di ritorcersi contro chi l’ha fortemente voluto da parte elvetica. C’è frontaliere e frontaliere.

C’è chi è per noi indispensabile e che dobbiamo tenerci caro per non mandare in crisi settori determinanti; c’è chi è davvero bravo e, indipendentemente dal settore in cui opera e dalla retribuzione, mette comunque in crisi la concorrenza nostrana; ma c’è anche chi si accontenta ed è disposto a tutto pur di avere un’occupazione. Sono però sempre i nostri datori di lavoro a scegliere e nessuno li costringe a optare per il frontaliere a scapito del locale.

I frontalieri ormai sono dappertutto e hanno colonizzato interi settori, soprattutto nel terziario, abbassando di molto gli stipendi di casa nostra. Realtà che va a scapito di tanti nostri giovani, e meno giovani, che non possono, e giustamente non vogliono, accettare stipendi da fame.

Nessuno ha in tasca la soluzione, tanto meno i nostri politici ticinesi che sul tema alla prova dei fatti si sono mostrati irresoluti, mentre ai politici confederati della situazione del canton Ticino importa fino a un certo punto. Molto più rilevante per loro è mantenere in generale un buon rapporto bilaterale con l’Italia, che rimane pur sempre una grande potenza economica.

L’impressione del cittadino comune è però che non si conosca abbastanza quel che realmente accade nel nostro mercato del lavoro. Che cosa succede ad esempio davvero nelle nostre banche che, non dimentichiamolo, sulla nostra piazza danno lavoro a più di cinquemila persone.

Quanti sono i frontalieri ben formati che per uno stipendio modesto si adattano a fare di tutto o quasi? Ed è vero che nelle banche di Lugano circolano laureati della milanese Bocconi a duemilacinquecento franchi al mese? E se sì, chi li ha chiamati e per quale ragione? È solo una questione di salario basso, oppure sono più bravi dei «nostri», più flessibili e più disposti al sacrificio? Hanno competenze specifiche che da noi non si trovano o si adattano a qualsiasi situazione pur di portare a casa la pagnotta?

Non dimentichiamo che in questo momento chi in Italia riesce a spuntare un contratto a tempo indeterminato a millecinquecento euro al mese è ritenuto un privilegiato. E che una delle promesse mirabolanti della recente campagna elettorale, ritenuta dai più una utopia irraggiungibile, era una pensione di mille euro al mese.

La situazione italiana così è, ma la netta sensazione è che la nostra politica debba ancora capire certi meccanismi di un mercato del lavoro fuori controllo. E che molti istituti di ricerca si limitino ciclicamente al solito compitino (dov’è finito l’Istituto di ricerche economiche, vero stimolo critico e spina nel fianco della politica per tanti anni nell’ultimo quarto del secolo scorso?). Urgono indagini più dettagliate che ci spieghino davvero perché tanti nostri datori di lavoro preferiscono spesso assumere frontalieri. Solo perché li si paga meno? O anche perché sono meglio formati in certi settori e magari rompono meno le scatole? Le ragione saranno molteplici e non sempre facili da mettere a fuoco.

Chiediamo scusa, ma ci ripetiamo. Che dire di politici che non fanno una piega quando la perequazione finanziaria federale assegna (dati 2023) al canton Vallese 843 milioni, al canton Soletta 423 milioni, al canton Grigioni 268 milioni, al canton Berna più di un miliardo e al canton Ticino solo 69 milioni? Con qualche centinaio di milioni in più ogni anno avremmo risolto abbondantemente tutti i nostri problemi. C’è chi sostiene che i frontalieri, indispensabili o no, sono considerati una ricchezza che ci penalizza fortemente nella perequazione finanziaria. E se chiedessimo all’università Bocconi di fare due calcoli?