L’editoriale

Che cosa significa matrimonio per tutti

Se ci sarà un Röstigraben sarà anagrafico - Lo spirito che soggiace alla modifica di legge è giusto, l’applicazione alla questione dei figli può suscitare qualche dubbio
© Ivan Samkov per Pexel.
Carlo Silini
21.09.2021 06:00

Ci siamo, manca poco. Se i sondaggi hanno ragione (e anche se sbagliano non troppo clamorosamente) in Svizzera potremmo essere alla vigilia di una svolta storica: il cosiddetto “matrimonio per tutti”. Sarebbe la ratifica di una percezione sociale positiva inimmaginabile solo un paio di decenni fa. Se mai ci sarà un Röstigraben, sarà anagrafico più che linguistico. Perché per i giovani l’estensione del matrimonio alle coppie gay e lesbiche è un non-problema, nessuno bisbiglia più alle spalle degli amori omosessuali, nessuno sente il peso dello stigma sociale se si innamora di una persona del proprio sesso.

Love is love, recitano gli slogan. Un tempo era considerato normale chi amava una persona dell’altro sesso, oggi è normale chi ama. Punto. Senza distinzioni di orientamento sessuale

Tutto questo suona quasi banale alle orecchie dei ragazzi, ma è una rivoluzione copernicana per chi è nato e cresciuto al tempo degli sfottò maligni e della riprovazione pubblica della “sfrontatezza” di chi osava mostrarsi per il gay o la lesbica che era. Nulla da stupirsi, quindi, se le generazioni meno green facciano una certa fatica ad aprirsi alla svolta. L’imprinting ricevuto da piccoli non può essere cancellato apponendo una crocetta sulla scheda di voto. Vero che esiste già l’unione domestica registrata, che non è poca cosa, ma se il matrimonio per tutti passerà, per molte persone di una certa età sarà una sorta di salto quantico. Ma è tempo di riconoscere i limiti di una certa educazione ricevuta, della discriminazione di chi viveva passioni e pulsioni non riconosciute come legittime. Fino a poco tempo fa per troppe persone vivere l’omosessualità era un dramma. Gli outing sono arrivati, e a volte arrivano ancora, dopo anni di immani sofferenze. Non ci vuole Einstein per capire, magari tardivamente, che l’amore non è mai una colpa. Lo dobbiamo ai troppi gay e lesbiche bullizzati nel recente passato. Diciamolo: mai più. L’omosessualità è già un passo avanti rispetto alla fase dell’esibizione orgogliosa e spettacolare della diversità. I gay pride non sono più uno scandalo, ma una festa urbana. Sul piano dell’accettazione sociale non esiste più un “noi” (eterosessuali, quindi normali) e un “loro” (omosessuali, quindi diversi). Love is love, recitano gli slogan. Un tempo era considerato normale chi amava una persona dell’altro sesso, oggi è normale chi ama. Punto. Senza distinzioni di orientamento sessuale. Prenderne coscienza significa anche restituire una dignità istituzionale a chi ne è stato fin qui privato. Significa dare pari diritti a eterosessuali e omosessuali.

Ma davvero i desideri sono diritti? Se esiste un desiderio inappagato di avere figli non si potrebbe appagarlo adottando dei bambini che hanno bisogno di genitori?

Ciò detto, è bene considerare anche qualche sfumatura. Per esempio, c’è chi ritiene che l’estensione della parola “matrimonio” alle coppie omosessuali sia un controsenso. Il termine viene da “mater” madre, e rimanda all’ufficio femminile riguardo la creazione e cura della famiglia (su modello di patrimonium, che invece si collega all’ufficio del padre di provvedere al sostentamento). Per qualcuno, quindi, anche il significato delle parole peserà nella scelta del voto. Ma forse, sul fronte dei dubbi, ancora più importante si potrebbe rivelare un aspetto che non riguarda il senso della modifica di legge proposta (che i più riconoscono come giusta), ma la sua applicazione alla questione dei figli. Bene che una coppia dello stesso sesso possa adottare congiuntamente un bambino (mentre con l’unione domestica registrata poteva adottare solo il figlio del partner). Ma la possibilità per le coppie lesbiche di accedere alla donazione di sperma è meno convincente. Prima di tutto perché in questo modo verrebbero discriminate le coppie di omosessuali maschi, in secondo luogo perché ci pare inappropriato equiparare l’infecondità con il “desiderio inappagato di avere figli”. Ma davvero i desideri sono diritti? Se esiste un desiderio inappagato di avere figli non si potrebbe appagarlo adottando dei bambini che hanno bisogno di genitori? Forse sbagliamo, ma per noi avere figli più che un diritto è un dono. E per quanto ci riguarda questo vale sia per le coppie omosessuali che per quelle eterosessuali.