Il commento

Da Fagnani a Fedez: come il true crime ha ucciso il pudore (e il buon senso)

Il delitto perfetto consumato in televisione: l’intervista a Bossetti segna il punto più basso della spettacolarizzazione del crimine – E a farne le spese sono sempre le vittime
Mattia Sacchi
14.06.2025 13:00

C’erano una volta il giallo e il noir. Poi sono arrivate le serie TV, le docu-fiction, le inchieste con la musica di sottofondo. Oggi il true crime è ovunque. Ma non racconta più i crimini: li mette in scena. Li confeziona, li lucida, li trasforma in storie da consumare. Non importa se dietro ci sono persone vere, famiglie distrutte, ferite aperte. Basta che funzioni sullo schermo.

Il true crime non è più un genere: è una moda. Una corsa al rilancio, nella quale chiunque si improvvisa esperto. Anche chi fino a ieri parlava di motori, di fitness o di cucina su YouTube. Persino Fedez. Sì, Fedez.

Il rapper milanese, fino a meno di un anno fa protagonista di un discutibile dissing con Tony Effe, senza risparmiare dettagli intimi del rapporto con l'ormai ex moglie Chiara Ferragni, oggi si cimenta con i cold case in podcast insieme al suo partner-in-crime (è il caso di dirlo) Mr. Marra, attualmente considerato, per mancanza di concorrenti, il miglior podcaster italiano del web. Chissà, magari ci sorprenderanno e sarà proprio questo improbabile duo a svelare i misteri d’Italia, da Emanuela Orlandi a Meredith Kercher.

Nel frattempo, il true crime ha definitivamente scollinato verso lo show.

Negli ultimi mesi, è tornato infatti alla ribalta anche il delitto di Garlasco. La storia di Chiara Poggi e Alberto Stasi – condannato in via definitiva nel 2015 – è stata riaperta sui media, non nei tribunali. Interviste senza autorizzazione, «supertestimoni», dettagli riesumati da vecchi hard disk. Più che un’indagine, una sceneggiatura. Con nuovi episodi, colpi di scena, protagonisti alternativi.

Che il caso presenti ancora margini di discussione, è un fatto. Ma il modo in cui viene raccontato oggi – tra format investigativi e prime serate – ha poco a che fare con la ricerca della verità e molto con il bisogno di audience. L’attenzione si sposta sui dettagli ambigui, su ciò che potrebbe essere. Il confine tra giornalismo e fiction si assottiglia. E la vittima, ancora una volta, sparisce dallo sfondo.

Ma il fondo lo si è toccato con il caso di Massimo Bossetti. Francesca Fagnani, volto del programma Belve, ha inaugurato lo spin-off Belve Crime con un’intervista all’uomo condannato in tre gradi di giudizio per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Un caso chiuso, definitivo, senza ambiguità, sostenuto da perizie, prove e sentenze.

Nella trasmissione c’era un contraddittorio, nel consueto stile incalzante della Fagnani. Non si è lasciato parlare Bossetti senza replica. Eppure, la domanda resta legittima: perché dargli tutto questo spazio? Che senso ha, a distanza di anni, offrire una nuova ribalta televisiva a una persona che – senza portare alcun elemento nuovo – continua a proclamarsi innocente?

Non si mette in dubbio la libertà editoriale. Ma l'opportunità sì. Il rischio – concretissimo – è quello di trasformare un colpevole accertato in un protagonista da prime time. E di spostare ancora una volta l’attenzione dalla vittima a chi il crimine lo ha commesso. Yara non ha più voce. Bossetti, invece, ne ha avuta tanta. E continua ad averne.

Si può fare? Sì. Ma ha senso? Soprattutto quando si dà spazio, senza novità, a una persona condannata in via definitiva, che continua a proclamarsi innocente? A pagare sono sempre gli stessi. I familiari. Chi ha già vissuto l’indicibile, chi ha atteso giustizia e l’ha ottenuta. Chi sperava che almeno il silenzio, dopo il clamore, potesse proteggere il ricordo. 

Il true crime, quando è serio, serve a capire. Ma quando diventa un pretesto per attirare attenzione, perde ogni utilità. Non spiega, non informa. Spettacolarizza.

Non tutto deve essere raccontato. E non ogni voce merita lo stesso spazio. Se l’unico risultato è trasformare un crimine in una «puntata forte», allora qualcosa non torna.

A quel punto, il male non lo si racconta. Lo si usa.

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