Il commento

Dazi: tra USA, Cina e l'ignoto

L'accordo raggiunto a Ginevra da Washington e Pechino è una tregua di 90 giorni e non un duraturo cessate il fuoco
©MARTIAL TREZZINI / POOL
Alfonso Tuor
15.05.2025 06:00

L’accordo sui dazi raggiunto a Ginevra da Stati Uniti e Cina è una tregua di 90 giorni e non un duraturo cessate il fuoco. Esso conferma l’interdipendenza delle due maggiori economie del mondo, ma non risolve le ragioni del conflitto tra Washington e Pechino, né crea le premesse per affrontare le cause dei problemi dell’economia mondiale che hanno spinto Donald Trump a dichiarare la guerra commerciale. Indubbiamente l’intesa mette la parola fine al gioco al rialzo dei rispettivi dazi e quindi rasserena le relazioni tra le due potenze.

Ma non si riparte da un rapporto di parità: infatti è stato calcolato che i dazi sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono calate dal 145% a circa il 40% (di cui il 20% legate alle esportazioni verso il Messico delle componenti per produrre la terribile droga chiamata fentanyl), mentre quelle americane sono ora ridotte al 10%. Sia la Casa Bianca sia Xi Jinping hanno parlato di un significativo successo. Altrettanto hanno fatto i mercati finanziari, che hanno recuperato le perdite accumulate dal Liberation Day dello scorso 2 aprile. Questi rialzi sono difficili da spiegare, poiché questa battaglia, secondo molti esperti, si concluderà con dazi varianti dal 10% al 20% per l’export della maggioranza dei Paesi e del 60% di quelle cinesi. Siamo dunque prossimi ai livelli considerati il peggiore scenario. Comunque, essi segnano la fine della globalizzazione e sicuramente cambiamenti strutturali di vasta portata in tutte le economie.

È difficile ipotizzare che dopo questa bufera si ritorni alla normalità, è più facile pensare che la debolezza del sistema globale non riuscirà ad evitare che ci si muoverà verso territori sconosciuti. Entriamo nel merito. In primo luogo, nei Paesi industrializzati il rimpatrio delle produzioni non sarà un processo facile né di breve periodo. Quindi la speranza che il ritorno di produzioni delocalizzate nei Paesi a bassi salari risolva il problema politico cruciale dei Paesi occidentali di riconquistare la via di una forte crescita, che permetta di reinserire nel mercato del lavoro coloro che ne sono stati esclusi, rischia di risultare infondata anche perché le fabbriche sono già oggi e ancora più saranno in futuro automatizzate. In secondo luogo, le sanzioni non risolvono il problema del debito pubblico che in un mondo più protezionistico sarà più costoso finanziare con l’afflusso di capitali stranieri, come accade negli Stati Uniti.

In terzo luogo, un grande interrogativo riguarda i mercati finanziari che si sono globalizzati anche perché hanno seguito la crescita del commercio mondiale. I rischi potrebbero essere il ricorso a restrizioni del movimento dei capitali, un’ulteriore crescita della concorrenza fiscale e un sistema finanziario, ancora più fragile. L’aspetto più delicato di questa transizione, che è anche un passaggio dalla predominanza dei mercati a quella della politica, è che non vi è un paracadute, poiché non pongono le basi di una riforma del sistema economico mondiale. Il rischio maggiore è una spaccatura tra Paesi occidentali e quelli emergenti, anche perché tutto lascia intravvedere un rafforzamento della predominanza americana. In conclusione, l’accordo tra Cina e Stati Uniti è solo una pausa di un passaggio verso l’ignoto.