Il divano orientale

Dostoevskij, io sto con te

La cultura lancia da sempre anche questo appello: o si sta con l’umano o si sta con la guerra
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Marco Alloni
Marco Alloni
25.06.2025 06:00

Il mio gatto si chiama Vladimir. Non certo in omaggio a Putin e tanto meno a Lenin, semmai in ricordo di uno dei grandi poeti della modernità: Vladimir Mayakovsky. Il gatto è però egiziano, è un gatto di strada. E l’ultima cosa che mi auguro per lui è che possa andare incontro a un destino tragico come quello del poeta russo suicida. Nominare un gatto – a quanto mi risulta, specie estranea all’idea del suicidio – con il nome di uno scrittore suicida è stato per me un modo per levare a quello di Mayakovsky la sua inesorabilità. Il mio gatto – protetto tra le quattro mura di casa – non incontrerà infatti, con ogni probabilità, che una morte naturale, la stessa che dovrebbe spettare a ogni individuo di questa terra. Tanto più quando si ha a che fare con il genio, che nel consegnarci capolavori immortali, in fondo, la morte l’ha già resa effimera nel corso della vita. Ma Vladimir – o Vladi, come a volte lo chiamo – rappresenta per me anche una risposta solitaria, silenziosa e discreta a una certa diffusa russofobia. Comprensibile, se pensiamo all’autarca di Mosca, ma del tutto irricevibile se andiamo con la memoria al contributo che uomini come Mayakovsky, Tolstoj, Tchaikovsky, Bulgakov, Chechov, Nureyev e migliaia di altri hanno dato alla cultura universale. Uso la parola «universale» a ragion veduta, perché racchiudere il pensiero del genio nelle categorie della geo-politica è né più né meno che un’eresia. O davvero ci importa sapere che Mo Yan, premio Nobel per la Letteratura, è «orientale» e non «occidentale», che Solzenicyn è russo e non statunitense, che Artaud è francese e non pakistano, che Singer è ebreo e non cattolico, che Achebe è africano e non australiano? Il ridicolo alligna ovunque si abbia inclinazione a quella sindrome della zolla che potremmo chiamare «provincialismo culturale». No, ritraiamoci dal provincialismo: in ambito umano e culturale, Oriente e Occidente sono due accidenti di nessuna importanza, al punto che lo stesso Tolstoj inaugura «Guerra e pace» con un dialogo in francese (la lingua dell’allora invasore Napoleone). Per cui il gatto Vladimir per me rappresenta oggi quello che in ogni epoca hanno rappresentato le vittime ingiuste della Storia: un eroe simbolico per rifiutare l’imbecillità del categorismo, a partire da quello politico. E se mai un giorno un altro gattino farà il suo ingresso in casa, sarà un piacere chiamarlo Isaac (come l’ebreo Singer, che non è Netanyahu), Adonis (come il poeta siriano, che non è Al Asad), Fëdor (come Dostoevskij, che non è Putin e nemmeno Stalin) o Conrad (che è americano ma non è Trump). Poiché alla fine la cultura lancia da sempre anche questo appello: o si sta con l’umano o si sta con la guerra. E io, se devo scegliere tra Trump e Putin, scelgo disinvoltamente Hemingway e Dostoevskij.