E il Nobel per la pace restò solo

Gerardo Morina
Gerardo Morina
07.09.2013 05:05

di GERARDO MORINA - Il presidente americano Barack Obama lascia il G20 con l?aria triste e delusa che non è certo quella trionfale rappresentata nello stemma degli Stati Uniti, con l?aquila che stringe col suo artiglio sinistro 13 frecce e con quello destro un ramo d?ulivo. Nobel per la pace nel 2009, oggi Obama si sente drammaticamente solo. Di tre partite ingaggiate in merito al suo previsto attacco alla Siria, il presidente ne ha già perse due. La prima contro gli antagonisti dell?America come la Russia e la Cina che, anche in base ai loro specifici interessi economici e strategici, hanno ribadito un netto no all?intervento americano. La seconda, volta a convincere gli alleati a seguirlo, è rimasta senza un riscontro da parte della comunità internazionale, con solo 4 Paesi (Turchi, Arabia Saudita,Qatar e Francia) a formare in scala molto ridotta una «coalizione di volonterosi». La terza partita, ancora da ultimare, riguarda i suoi avversari in patria, la cui reazione verrà testata attraverso il voto al Congresso. La votazione è per Obama un?arma a doppio taglio: se prevarranno i sì all?attacco il presidente si sentirà rincuorato dall?appoggio e dalla «complicità» di Camera e Senato; se saranno i no a prevalere, lo scacco subito da Obama si ripercuoterà sul periodo rimanente del suo mandato presidenziale. L?angolo in cui il presidente si trova confinato è tanto più drammatico in quanto segna la fase ultima del suo percorso da fautore di una realistica ma accorta governance multilaterale del mondo alla funzione acquisita di guerriero. Si ricorderà come Obama fosse stato eletto per il suo secondo mandato allo scopo specifico di occuparsi prevalentemente di economia e politica interna. Si ricorderà anche come l?approccio seguito dal presidente in politica estera non rispecchiasse più il «nuovo ordine mondiale» dell?era Bush, ma lo considerasse ormai superato da una visione più moderata nella gestione degli eventi internazionali. È pertanto legittimo chiedersi quali fattori abbiano determinato la trasformazione del presidente, evidente nella sua decisione di intervenire in Siria. La risposta è: in gran parte influenze esterne. Vediamole. Un peso tutt?altro che irrilevante l?ha avuto il ruolo rivestito dalla consigliera per la Sicurezza Nazionale Susan Rice che, anche in veste di Rappresentante permanente degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dell?ONU, non solo usò sempre parole di fuoco contro i veti di Russia e Cina alle bozze di risoluzioni di condanna nei confronti del regime di Assad, ma invitò ripetutamente il presidente a far rispettare la «linea rossa» relativa all?impiego di armi chimiche. Un imprescindibile imperativo morale di cui dunque il presidente è stato chiamato a tener conto, soprattutto dopo il recente eccidio siriano di civili e bambini. E nello stesso tempo un vincolo insolubile di cui Obama si è sentito alla fine prigioniero. Un effetto non certo sottovalutabile è inoltre venuto dalle pressioni esercitate negli Stati Uniti dalla potente lobby ebraica AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) nonché direttamente da Israele. Non casuale è stata infatti la visita compiuta a Washington il 26 agosto scorso da Yaakov Amidror, consigliere alla Sicurezza Nazionale del premier Netanyahu. Sembra che Amidror abbia portato con sè dati particolareggiati raccolti dall?intelligence israeliana e abbia espresso l?allarme di Israele per i continui movimenti di armi tra Iran e Siria. Terzo ed ultimo impatto determinante su Obama è stato l?appello lanciato da Benjamin Rhodes, numero due della Sicurezza Nazionale, sulla necessità che gli Stati Uniti non abdichino al loro ruolo di gendarme della sicurezza globale, pur di fronte alla tendenza di graduale disimpegno determinata dall?emorragia di sangue e denaro provocata dalle avventure in Iraq e Afghanistan, dalla crisi economica e finanziaria, dal debito pubblico, dalle nuove priorità interne, dalla necessità di concentrarsi sulla sfida proveniente dal Pacifico e, non meno importante, dal cammino a tappe forzate intrapreso dagli Stati Uniti per una loro non lontana autonomia energetica.

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