Ecco perché le liceali sono nostre

Carlo Silini
17.05.2014 05:05

di CARLO SILINI - Non costa nulla brandire un cartello con su scritto «Bring Back Our Girls» che è lo slogan lanciato per chiedere la liberazione delle 276 liceali rapite il 14 aprile dai terroristi di Boko Haram a Chibok, in Nigeria. Soprattutto se sei davanti ad una Webcam e sai che la tua faccia farà il giro del mondo. Come sponsor della campagna abbiamo visto non solo i selfie di Michelle Obama e di Malala (la ragazzina pachistana sfuggita a un attentato talebano nel 2012), che hanno un senso politico reale, ma anche quelli di cantanti, attori e starlette che della crisi nigeriana ne capiscono quanto un terrorista di Boko Haram capisce di paillette e di lucidalabbra. Sia chiaro che più se ne parla, più aumenta la possibilità che qualcosa si faccia per salvare le ignare protagoniste di un sequestro locale trasformatosi in un reality show planetario. Quando mai, in situazioni analoghe, gli USA avevano mandato i loro caccia a perlustrare dall'alto un Paese straniero? Benvenga, quindi, il circo dei social network. Ma non fingiamo che lo scatto di reni dell'Occidente sia una disinteressata operazione di giustizia internazionale. A parte il calcolo d'immagine dei furbi della rete, la vicenda delle ragazze sembra scelta apposta anzitutto per rilanciare il teorema dello scontro tra civiltà e, in seconda battuta, per tenere sotto controllo uno dei maggiori produttori di petrolio del pianeta. Quella che da noi appare una guerra di religione fra la metà musulmana della Nigeria contro la metà cristiana, laggiù è vissuta come la lotta degli esclusi dal potere e dalla ricchezza contro un Governo corrotto. Le differenze religiose servono soprattutto a coprire conflitti sociali. Certo, il nome Boko Haram, in haoussa, la lingua del nord, significa «l'educazione occidentale è un peccato». E il leader del movimento, Muhammad Shekau, si vanta di aver «giurato di bruciare le scuole che non sono di Allah né del profeta». Ma i principali leader musulmani nigeriani e planetari condannano senza appello la dottrina di Boko Haram, le cui imprese servono «per colpire l'Islam», come ha detto Abdallah Zekri, presidente dell'Osservatorio contro l'islamofobia in Francia. A smontare la teoria del conflitto religioso è stato però anche un cristiano: mons. Oliver Dashe Doeme, vescovo cattolico di Maiduguri, zona controllata da Boko Haram. Il movimento, ha spiegato il prelato all'ONG «Aide à l'église en détresse» è il «prodotto della corruzione» nigeriana e nasce dalla concentrazione unilaterale dell'economia sull'estrazione del petrolio. La crescita dell'Islam radicale, questa la sua tesi, dipende dal discredito della classe dirigente (l'ex-presidente Sani Abacha è stato accusato di aver stornato decine di miliardi di dollari). Il modello della democrazia all'occidentale è apparso falso e criminale e la soluzione intravista è stata il ritorno alla legge islamica. In secondo luogo, per quanto inquietante, la vicenda delle studentesse rapite non è la più grave degli ultimi tempi. In febbraio, per esempio, Boko Haram aveva attaccato il dormitorio di un liceo a Buni Yadi uccidendo 43 alunni, tutti di sesso maschile. Qualcuno di voi ricorda di avere letto questa notizia? Senza contare che dal 2009 ad oggi al gruppo terroristico sono attribuite stragi nelle chiese cristiane e nelle scuole per un ammontare di oltre 3500 vittime. Quanti tweet sono stati cinguettati dalle first lady della politica e dello spettacolo per solidarizzare con le famiglie degli uccisi? E come mai ci siamo «accorti» della tragedia nigeriana solo adesso? Azzardiamo una risposta: perché noi percepiamo le crisi esterne all'Occidente con criteri tutti occidentali. Così, in un momento in cui le nostre società si scoprono maschiliste e femminicide, l'idea che 276 ragazze vengano rapite e convertite all'Islam o rivendute per 12 dollari per diventare spose e/o schiave sessuali fa più scandalo di una «banale» carneficina di adolescenti maschi. Sul piano dei valori, significa che per noi la privazione della libertà è più grave della privazione della vita. Ad indignarci è poi l'imposizione di un credo a chi ne ha già uno, il nostro. L'aggettivo possessivo è la parola chiave per capire la mobilitazione dei social network quanto urlano: «Ridateci le nostre ragazze». Le aiutiamo perché le consideriamo un'emanazione della cultura occidentale. E le piangiamo come non facciamo quasi mai davanti ai profughi nordafricani che troviamo alle nostre frontiere. Ciò detto, ci associamo con convinzione al mantra «Bring Back Our Girls», ma vogliamo farlo pensando che quelle ragazze sono «nostre» non perché donne, educate all'occidentale e cristiane, ma perché sono esseri umani indifesi e perseguitati. Questi sono gli unici due aggettivi che contano.