Il commento

Elisabetta che «portava la pioggia»

Quando hanno premiato Harry e Meghan per il loro «coraggio» nell’infangare ingiustamente anche la nonna, gli organizzatori di questo Human Right Award intitolato a Bob Kennedy avevano dimenticato, o addirittura ignoravano la storia?
© KEYSTONE (AP Photo/Matt Dunham)
Antonio Caprarica
24.11.2022 06:00

La storia, com’è noto, ha una sua maliziosa saggezza che manifesta attraverso apparenti coincidenze. Quarant’otto ore fa ha messo a confronto il più ridicolo dei riconoscimenti attribuito ai «Windsor americani» con il più maestoso degli eventi che la monarchia offre con regolare scadenza a Londra. Harry e Meghan sono stati incredibilmente premiati per la loro «eroica» (nientemeno!) denuncia del «razzismo strutturale nella famiglia reale», nella famosa intervista tv a Oprah Winfrey. Nelle stesse ore, proprio quella famiglia reale accoglieva con la dovuta solennità nei saloni di Buckingham Palace il presidente nero del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, per la prima visita di Stato ospitata dal nuovo monarca. Uno accanto all’altro al momento dei brindisi, re Carlo III e il leader africano discepolo di Nelson Mandela hanno ricordato il contributo personale della scomparsa regina Elisabetta II alla lotta dei neri contro la segregazione razziale, e l’amicizia personale che da allora l’ha sempre legata al leggendario Madiba. Che aveva addirittura coniato per lei un nome speciale, come confidò a Carlo durante una sua visita nel 1997: «Motlalepula», ovvero «portare la pioggia». Non era ovviamente un riferimento al cattivo tempo delle isole britanniche, che secondo i malevoli gli inglesi si portano sempre appresso. La pioggia in Africa è vita, è salvezza, è speranza di rinascita. Esservi associata nel nome era segno di enorme affetto e rispetto per Sua Maestà.

Elisabetta se l’era pienamente meritato. Nella sua battaglia contro l’apartheid imposto dagli ex coloni bianchi, Sua Maestà non aveva esitato a sfidare perfino un colosso come la «Lady di ferro». Per calcoli meramente commerciali e di geopolitica la signora Thatcher coltivava ottimi legami con il governo razzista di Pretoria. Perciò si rifiutava di dare l’assenso britannico alle sanzioni che il resto del Commonwealth intendeva imporre al regime sudafricano. Per forzarle la mano la sovrana fece trapelare sui giornali la sua ferma contrarietà alla linea del governo. Dovette arrendersi quando la premier minacciò una crisi costituzionale, visto che il monarca non può interferire in alcun modo nella sfera politica.

Quando hanno premiato Harry e Meghan per il loro «coraggio» nell’infangare ingiustamente anche la nonna, gli organizzatori di questo Human Right Award intitolato a Bob Kennedy avevano dimenticato, o addirittura ignoravano la storia? In ogni caso, un peccato doppiamente grave per chi come Kerry Kennedy non è solo presidente del premio ma figlia dell’indimenticabile Bob. Giustamente l’Inghilterra è indignata per una scelta che non offende solo la famiglia reale ma l’intero paese, tra i più avanzati al mondo nella lotta al razzismo e nel rispetto delle diversità. Se pensate che in passato il premio era andato a una figura come il vescovo Desmond Tutu, il campione sudafricano anti-apartheid, capirete perché pure l’America amante delle celebrities (specie reali) trovi francamente eccessiva la «nomination» di Harry e Meghan.

Perfino il fratello di Kerry, Robert Kennedy junior, ha definito la decisione «sconcertante». Più severo lo storico David Nasaw, premio Pulitzer, che ha parlato di «qualcosa fra il sublimemente ridicolo e il palesemente assurdo». Entrambi gli aggettivi si adattano a pennello anche alla megalomania della coppia dei premiati, che non hanno trovato nemmeno l’umiltà di declinare l’offerta.

Per un esempio di umiltà davanti al passato bisogna invece tornare a Buckingham Palace, al banchetto di Stato in onore del presidente Ramaphosa. Dove re Carlo ha dato una lezione di storia e di etica tanto alla signora Kennedy che al figlio cadetto, sempre più vicino alle capriole del Grande Fratello che ai doveri di un principe per quanto ribelle. Di fronte al presidente dell’ex colonia che è oggi il più potente stato africano, il monarca non ha certo nascosto «gli elementi della storia comune che provocano profondo dolore ma è essenziale che cerchiamo di comprenderli». E non basta: «Dobbiamo riconoscere i torti che hanno disegnato il nostro passato per liberare la potenza del nostro futuro comune». Ramaphosa lo ha ringraziato, per quella che ha definito una leadership «visionaria», e sui temi ambientali addirittura «profetica». Ma che volete che sia di fronte a «un’eroica» intervista a Oprah?