Fogli al vento

Epitaffio per Blatten

Un paese seppellito sotto milioni di metri cubi di roccia e fango: c'è poca consolazione, nella disperazione
Michele Fazioli
Michele Fazioli
02.06.2025 06:00

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (Cesare Pavese, La luna e i falò). Blatten non esiste più. È seppellito sotto milioni di metri cubi di roccia e fango, un deserto cattivo. Forse, fra molti anni (secoli?) in quel deserto rifioriranno erbe e alberi, la terra è tenace, i semi volano, il tempo non si ferma. Ma Blatten resterà lì sotto, sepolto. Rimane lo strazio di quella povera gente montanara. Son dovuti andarsene di corsa, un groppo in gola, un’ombra di paura negli occhi. Mezz’ora per arraffare poche cose, chiudere la porta (magari a chiave: ma il ghiacciaio non è un ladro, non ruba, stermina). Monitoreremo, dicevano i geologi, vedremo, forse succederà come a Brienz nei Grigioni, si potrà tornare per brevi ricognizioni controllate, staccare una foto di cari morti dalla parete della stübe, prendere quella pendola, quell’abito della festa, carezzare con lo sguardo il declivio dei prati, toccare il muretto riscaldato dal sole sul quale tante generazioni hanno scherzato, riso, corteggiato. Invece a Blatten è accaduto il peggio. La montagna è caduta sul villaggio, un boato, una nuvola enorme, funerea. Blatten non esiste più. Lo ricostruiranno, possibilmente nella stessa vallata, ma quel Blatten lì carico di secoli e di mille remote memorie non esisterà piu. Né per i suoi abitanti fatti fuggire in fretta assieme ai loro animali, poca roba sulle spalle, tutto un passato raccolto dentro un dolore nel petto. Non esiste più, Blatten, nemmeno per i suoi figli emigrati, chi nella Svizzera urbana, chi in giro per il mondo ma tutti legati a quel filo di certezza pavesiana: «un paese bisogna averlo». E loro ce l’avevano: nella nostalgia, nelle cartoline, nei whatsapp, nei ritorni, negli orizzonti rivisti, quei prati falciati, quel rigo di alberi, quei nidi di legno e affetti, quelle poche vie addobbate di gerani e di ricordi. Perdere per sempre un paese è come un anticipo di morte.

Come perdere una persona cara e potersela figurare ormai soltanto nella memoria, sbiadita dal tempo. Per chi ha la fede resta la speranza promessa di poterli rivedere e toccare, quei cari volti. Ma è dura la speranza, è remota la scadenza siderale della «resurrezione della carne». E della resurrezione di Blatten: risorgeranno forse inverni nevosi e veglie davanti al fuoco, corse infantili nell’erba, campane domenicali, le maschere grottesche degli antichi carnevali, quel profilo di montagna così noto, così amato come una madre. Ma quando? Ma come? C’è poca consolazione, nella disperazione. Sotto quella montagna franata tutto è sepolto, anche il cimitero, i morti sono stati seppelliti una seconda volta, non ci saranno più piccole croci e nomi, fiori da innaffiare. Blatten oggi è tutto un cimitero, cimitero di morti e cimitero di case e di cose: i giocattoli dei bambini, la «roba»” dei vecchi, il divano cigolante, la credenza odorosa di canfora e passato, le scatole delle lettere, i libri dei nonni che contenevano vite, i ritratti dei morti che per fortuna non hanno visto questa tragedia. Ma se per caso fossero su in qualche Blatten dei cieli, allora intercedano per la consolazione di chi è rimasto senza paese, un filo di speranza come fili di fumo da camini che non ci sono più.