Evitiamo processi dannosi

IL COMMENTO DI FLAVIO VIGLEZIO
Flavio Viglezio
25.06.2018 06:00

DI FLAVIO VIGLEZIO - Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri. Nomi e cognomi che non evocano serene giornate festive di un caldo primo d'agosto trascorso al praticello del Grütli. Eppure sono due cittadini elvetici, calciatori di professione, che nonostante le loro origini kosovare hanno scelto – al contrario di altri, confrontati alla loro stessa situazione – di vestire la maglia della nazionale rossocrociata. Sì, lo hanno scelto. Sono altresì figli di una delle più barbare e sanguinarie guerre che abbia colpito in tempi moderni l'Europa. Sono cresciuti nell'accogliente Svizzera, cullati però dai racconti di nonni e genitori; racconti pregni di odio, rabbia, tristezza e rancore che solo chi ha vissuto in prima persona una guerra può probabilmente spiegare. E soprattutto capire. Sono il frutto di una multietnicità che solo le prossime generazioni potranno assaporare appieno, quando l'odore del sangue tragicamente versato si sarà definitivamente evaporato. Ci hanno permesso di vincere una partita ad un Mondiale che, senza di loro, non potremmo gustare da protagonisti: urla di gioia, abbracci, caroselli. Un clima di pura euforia immediatamente raffreddato da feroci critiche nei loro confronti per aver esultato ricordando al mondo intero dove affondano le loro origini culturali. Spesso accusati di non avere abbastanza a cuore le sorti della nostra nazionale, si ritrovano oggi sul banco degli imputati dopo aver disputato una partita maiuscola. Il rispetto per la Svizzera lo hanno dimostrato laddove devono farlo: correndo, lottando e segnando due reti su un campo di calcio. Le scatole semmai possono girare alla Serbia, non al popolo svizzero. «La politica non dovrebbe avere nulla a che fare con lo sport», hanno sentenziato in molti. Una balla grande come una casa: lo sport è politica ed è utilizzato dai Governi più potenti a scopo di «propaganda» – concedeteci il termine – nazionale. E la FIFA, con la sua scia di nauseabondo marciume, non è forse un'organizzazione politica? Gli atleti stessi hanno spesso fatto leva sulle loro imprese per veicolare messaggi forti: i pugni chiusi degli sprinter americani Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968 a Città del Messico, il rifiuto di Muhammad Ali di andare a combattere nel Vietnam, la «mano di Dio» di Diego Maradona ai Mondiali del 1986 contro l'Inghilterra vissuta come una rivincita dopo un'altra guerra, quella delle Falklands. Ma chi si scaglia senza pietà contro Xhaka e Shaqiri – al di là della rispettabilissima sensibilità patriottica individuale che alberga a livelli diversi in ognuno di noi – dimentica forse che sport e razionalità non sono mai andati e mai andranno a braccetto. Fosse solo il cervello a gestirne le dinamiche, lo sport sarebbe una delle attività più noiose sulla faccia della terra. Scatena invece la passione del mondo intero perché si nutre e dispensa emozioni sovente incontrollabili. Positive – per fortuna la maggior parte delle volte – ma purtroppo anche becere e violente. O ancora immature, come nel caso dei nostri giocatori. Xhaka e Shaqiri potevano evitare di esultare in quel modo? Certo. Ma chissà perché, nessuno dei loro denigratori cita minimamente in queste ore le provocazioni a raffica ricevute dai due nei giorni precedenti la sfida e la marea di fischi che ha accompagnato il salmo svizzero. Accusiamo volentieri i giocatori di calcio di essere diventati fredde macchine da soldi, senza sentimenti: ora c'è chi li bastona per aver lasciato esplodere – lo ribadiamo, in modo poco elegante – ciò che davvero si portano dentro. Nessuno ha pensato al vissuto delle loro famiglie, a quale fosse il valore di quella sfida sul piano personale, alle bombe, ai massacri perpetrati. In fondo a pochi chilometri in linea d'aria dalla nostra placida patria. Da una parte e dall'altra, perché la guerra vera non è una partita di pallone e non ci passa nemmeno per la testa di «fare il tifo» per gli uni o per gli altri. Possono aver sbagliato, ma non meritano nessun processo. Perché Granit e Xherdan, con ciò che accadde nel Kosovo mentre a lungo la comunità internazionale stava a guardare con indifferente silenzio, c'entrano come i cavoli a merenda. È anzi il dito puntato su Xhaka e Shaqiri a riaprire ferite ancora troppo fresche per essere dimenticate, non il loro segno dell'aquila. Più se ne parlerà e più le atrocità commesse nella ex Jugoslavia torneranno di attualità. E con loro il rischio di fomentare altro odio. È anche nostra responsabilità smorzare i toni della polemica su temi così gravi. Alimentarli sarebbe controproducente, dannoso e pericoloso. La Svizzera ha avuto la fortuna (accompagnata dal buonsenso dei nostri antenati) di poter vivere pacificamente e in un clima di reciproco rispetto e tolleranza perché aiutata da quelle fenomenali invenzioni politiche che sono il federalismo e la democrazia diretta. Altri Paesi questa fortuna non l'hanno avuta. Ricordiamocelo la prossima volta, prima di giudicare senza mezze misure. E Forza Svizzera, sempre e comunque.