Fidel Castro, il despota avvolto nel mito

IL COMMENTO DI FERRUCCIO DE BORTOLI
Morte di Castro, la fine di un'epoca.
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
28.11.2016 06:00

di FERRUCCIO DE BORTOLI - Il Novecento è finito nella notte tra venerdì e sabato. Con la morte di Fidel Castro. Un secolo lungo. Non breve come lo definì Eric Hobsbawm. Interminabile nei suoi residui ideologici. Leggendo il fiume di parole che scorre sui media di tutto il mondo, dovremmo dedurre che è morto un liberatore degli oppressi, un simbolo della rivoluzione candido come le spiagge caraibiche, anziché un dittatore che ha schiacciato senza pietà il dissenso. L'immagine di qualsiasi altro despota sarebbe stata oscurata dalle sue colpe. Quella di Castro invece è avvolta dall'alone protettivo del mito, circonfusa da un'aura letteraria. Non risente dell'usura del tempo, quasi fosse romanzesca, cinematografica. Del resto nessun grande leader ha avuto uno spin doctor come Gabriel Garcia Marquez, né ha potuto godere, come spalla, del magnetismo epico di Che Guevara. La trama è stata straordinaria. La piccola Cuba che lotta indomita - come dice ancora oggi Luciana Castellina - contro Golia, l'America. La colonna sonora indimenticabile. Buena Vista Social Club è il disco latino americano più venduto di tutti i tempi, anche grazie al film di Wim Wenders. I turisti all'Avana inseguono i cocktail di Ernest Hemingway, le ambientazioni del capolavoro di Graham Greene. Il fascino di un'isola è diventato il fascino di un regime. La scenografia irresistibile di un comunismo all'apparenza gioioso, compassionevole nelle sue indiscutibili conquiste sociali, dall'istruzione per tutti a un'assistenza medica universale. «A Castro – confida a Repubblica Inge Feltrinelli – non perdonerò mai l'assassinio di Orlando Ochoa, l'eroe dell'Angola. Ma non concordo con la definizione di regime». Così.
Il mito castrista è stato costruito anche dagli errori americani. A cominciare dal fallito sbarco alla Baia dei Porci nel '61. La Cia avrebbe studiato 683 metodi per eliminare il lider maximo. Chissà come sarebbe cambiata la storia se il giovane avvocato, educato dai gesuiti, amante del basket e del baseball, fosse stato preso sul serio da Washington, appena abbattuto il regime corrotto di Batista nel '59. Se Nixon, che lo incontrò da vicepresidente di Eisenhower, pochi mesi più tardi, non ne avesse avuto un'impressione pessima, al punto di scartare l'ipotesi di attenuarne, sul piano economico, la carica rivoluzionaria. Forse l'Avana non sarebbe finita nelle braccia dell'URSS, e nemmeno al centro della crisi dei missili nel '62, risolta sull'orlo del conflitto nucleare da Kennedy e Kruscev, senza nemmeno avvertire Castro. Il lungo embargo, che ha costretto Cuba a dipendere dagli aiuti di Mosca e dal petrolio di Chavez, sta finendo grazie a uno dei successi in politica estera di Obama. Il presidente uscente conosce in questi giorni un amaro crepuscolo. La sua frase su Castro «Lo giudicherà la storia» è forse condizionata dalla preoccupazione di difendere un accordo reso possibile dalla mediazione di papa Francesco. Il presidente eletto Donald Trump è stato persino sprezzante. «Morto un brutale dittatore». Su di lui ricadranno le critiche anche di molti che, a sinistra, hanno fatto sconti a Castro per tutta la loro vita. Dimenticando i dissidenti in prigione e la negazione dei diritti (come quelli degli omosessuali). Ricordava ieri sul Corriere della Sera Pierluigi Battista che nessuno s'indignò tra gli amici occidentali del dittatore quando Orlando Zapata Tamayo si lasciò morire in carcere per protesta dopo 85 giorni di sciopero della fame. Carlos Franqui, scrittore e attivista, che partecipò ai primi moti rivoluzionari e poi si schierò contro il regime, fu costretto all'esilio. E finì in un cono d'ombra. Come molti altri. Il comunismo non ha vinto, ma Fidel Castro una battaglia l'ha vinta. Nel soft power, nel potere culturale – definizione del politologo Joseph Nye – ha prevalso anche sui detentori americani. La storia l'ha scritta lui, in vita. Conquistando le menti dell'élite culturale di mezzo mondo, da Jean Paul Sartre a Oliver Stone. Ieri Luis Sépulveda, su La Stampa, ha terminato così il suo commosso ricordo: «Hasta la victoria siempre, comandante guerrigliero».
Nel 1996, in occasione di un vertice della Fao, Castro andò a Roma e Gianni Agnelli decise di invitarlo a cena. Jas Gawronski ricorda l'episodio in un suo libro. Fidel in doppiopetto si presentò nella casa romana dell'avvocato, nella piazza del Quirinale, con un amico non previsto. Il tavolo era così per tredici persone. Tutti superstiziosi, ospite d'onore compreso. Gawronski venne spedito in cucina. Durante la cena, Agnelli chiese a Castro (fu sorpreso racconterà agli amici dalla voce un po' chioccia del leader): «Quando farete le elezioni?». Non disse libere solo per cortesia. Il lider maximo non rimase sorpreso. «È come se io le chiedessi quando comincerete alla FIAT a fare delle auto». Insuperabile. E probabilmente la battuta non gliela aveva scritta nessuno.

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