Fogli al vento

Fra nati e morti

La rubrica di Michele Fazioli
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Michele Fazioli
Michele Fazioli
12.10.2020 06:00

Meno nati, più morti. Culle vuote, ospizi pieni. È di pochi giorni fa la comunicazione periodica dell’Ufficio federale di statistica: in Svizzera l’anno scorso è stato registrato il più forte calo di nuovi nati dal 1998: 1.700 nascite in meno rispetto al 2018, per un totale di 86.200 (-2%). Per contro è aumentato il numero dei morti: 67.800, 700 in più rispetto all’anno precedente (+1%). Nella classifica dei cantoni il Ticino è in fondo. Un saldo positivo ce l’hanno invece Appenzello Interno e Giura (3% di nascite in più). In Ticino la cifra dei nati (2.494) è inferiore a quella dei decessi (3.238): la morte batte la vita con un distacco di 744 persone. Un minimo di saldo naturale è assicurato dagli stranieri, che frenano la diminuzione costante. Sull’onda di questo andamento, il nostro (ma la tendenza è generale) è sempre più un «Paese per vecchi». Vuol dire che un numero sempre minore di giovani dovrà lavorare sempre di più per mantenere un numero sempre maggiore di vecchi. Il sistema dell’AVS potrebbe scricchiolare. Questa realtà cambia anche le tipologie sociali. Ovunque. «La Stampa» di qualche tempo fa parlava di «un esercito di nonni che comperano le cotolette per i figli precari con la loro pensione, tirano su i nipotini che non trovano posto negli scarsi asili nido, li aiutano a fare i compiti mentre mamme e papà sono al lavoro». Meno bambini, più nonni. Se una volta succedeva che c’erano magari moltissimi nipoti per un solo nonno in vita, oggi accade che ci sia spesso un solo, vezzeggiato nipotino conteso da quattro nonni pimpanti. E questo grazie anche al provvido allungamento delle esistenze dovuto alla qualità di vita e ai progressi della medicina. Ma a questa fortuna di vite allungate non corrisponde una piena risposta di vite nuove. È anche una questione sociologica, economica e di diritti. Le donne giustamente accedono molto più di prima agli studi e alle professioni: la società sta rispondendo in modo strutturale (asili nido, sussidi) a questa svolta epocale, ma l’offerta (economica e anche psicologica) sembra essere in ritardo rispetto alla domanda. Ma ci sono anche altri fattori. Ci ha sicuramente messo del suo, in questi decenni, la cultura dominante della società del benessere che ha creato il mito dell’efficienza e dei pochi figli. Crescere i figli costa fatica, denaro e responsabilità, fra immense gioie ma anche rischi di crucci e dolori e tutto ciò contraddice consumi e carriere e induce pessimismo o indifferenza sull’orizzonte del destino. Le poche famiglie che si ostinano a fare molti figli sono guardate come una cosa strana. Forse, davvero, volere che i figli nascano e lasciare che i figli nascano vuol dire dopotutto amare la vita, fidarsene, abbracciare la scommessa di un destino buono per noi e per chi abbiamo messo al mondo. Sarebbe interessante sapere se e in che misura la vita sia ancora giudicata come dono, meraviglia, destino forte e non come un optional da centellinare secondo il desiderio immediato. Per cui succede poi paradossalmente che proprio la nostra società benestante che fa pochi figli, in una sua minoranza fa qualsiasi cosa pur di averne, fino agli uteri in affitto (non c’è qui spazio per parlare dell’uso mercificato e umiliante dei ventri femminili venduti, che è uno sfregio alla dignità delle donne).

È vero che oggigiorno si manifesta anche la cultura, giusta, della cosiddetta paternità (e maternità) responsabile. Ma frenare per egoismo o tiepidità esistenziale il flusso naturale della vita che preme e irrompe significa avere una preoccupante «irresponsabilità del futuro».