Il commento

Genio critico e teorico inimitabile

Nel ricordo del regista franco-svizzero Jean-Luc Godard, morto oggi all'età di 91 anni.
Il regista franco-svizzero Jean-Luc Godard durante la cerimonia di premiazione del «Grand Prix Design», nella foto del 30 novembre 2010, al Museo del Design di Zurigo, in Svizzera. (© KEYSTONE/Gaetan Bally)
Antonio Mariotti
13.09.2022 19:27

Tempi tristi per il cinema svizzero che, nel giro di poche ore, tra domenica e quest'oggi, ha perso gli ultimi superstiti di una generazione: Alain Tanner (93 anni) e Jean-Luc Godard (91). Due personalità che più diverse non avrebbero potuto essere, per carattere e per approccio alla propria arte, che hanno influenzato in maniera importante il cinema della seconda metà del XX secolo. Il primo è stato il capostipite (insieme a Goretta, Soutter e alcuni altri romandi) di quel Nuovo cinema svizzero che soprattutto negli anni Settanta ottenne grandi successi di critica e di pubblico, divenendo un esempio da imitare in molti Paesi come discorso critico, ma al tempo stesso appassionato e militante, sulla società contemporanea. Il secondo sarà ricordato soprattutto come un grande teorico della settima arte che non sempre è riuscito a trasporre efficacemente sullo schermo le proprie geniali intuizioni. Un personaggio scomodo e imprevedibile, dal carisma debordante che l’ha fatto assurgere a vera e propria icona, con i suoi occhiali dalla montatura nera, la barba sempre di qualche giorno, la sciarpa rossa al collo e l’immancabile sigaro tra i denti.

Prima di essere cineasta però, Jean-Luc Godard ha fatto parte (insieme a François Truffaut Eric Rohmer e Jacques Rivette, per citare i nomi più noti) di quei giovani critici francesi che dalla seconda metà degli anni Cinquanta dalle pagine dei «Cahiers du cinéma» hanno contribuito a dare una spallata al «cinéma de papa» gettando le basi per quella Nouvelle vague di cui saranno poi tra i massimi protagonisti. Una riflessione sul cinema concretizzatasi in una rivoluzione tecnica e produttiva (piccole troupe, macchine da presa leggere, suono in presa diretta, abbandono degli studi di posa) e in una rivalutazione del cinema americano di genere (Hitchcock, Sirk ecc.) allora ben poco considerato dalla critica anche oltreoceano. Una ricetta che Godard saprà applicare alla perfezione ai suoi primi lungometraggi (dal frenetico e sorprendente A bout de souffle del 1960 all’inquietante e assurdo Week-end del 1967) per poi essere travolto dalla contestazione del maggio parigino e lanciarsi in un militantismo «cine-politico» che per una dozzina d’anni lo porterà a sperimentare nuove forme di comunicazione, smarrendo però il contatto con il pubblico. A partire dagli anni Ottanta, Godard torna a girare in maniera più convenzionale (Sauve (qui peut) la vie) ma non abbandona la propria vena critica con le sue Histoire(s) du Cinéma divenute poi anche una serie per la Tv e al centro dell’omaggio (problematico e mezzo mancato) che gli rese il Festival di Locarno nel 1995.

Godard non ha però mai rinunciato a utilizzare la cinepresa come una penna, girando opere audiovisive nelle quali si interrogava sul potere delle immagini, del suono, della musica e del montaggio. Opere in cui spesso a farci da guida è la sua voce roca dal tono ironico e provocatorio. Come nel suo ultimo lavoro Le livre d’image (premiato con una Palma d’oro speciale a Cannes nel 2018) nel quale le sue affabulazioni sono sempre caustiche ed estremamente intelligenti e la magia del cinema finisce, nonostante tutto, per sedurci ancora una volta. Adieu JLG!