Tennis

Gianni Clerici e il Divino, storie di decani

Per la prima volta da una vita, il giornalista comasco ha seguito da casa questa edizione di Wimbledon
Roger Federer ha giocato dodici finali sull’erba del Centre Court a Wimbledon. (Foto Keystone)
Raffaele Soldati
15.07.2019 06:00

Da una vita, per la prima volta, non è a Church Road. Quando ce lo dice non riesce a nascondere il disappunto. «Seguire le partite dal vivo, ve lo assicuro, è tutta un’altra cosa. Se ci penso mi viene il magone. Anzi, mi deprimo». A dirlo è il decano dei giornalisti di tennis, Gianni Clerici, che il 24 luglio compirà 89 anni. «Non parliamo di età. Ognuno ha quella che si sente dentro. Vale per me e, diciamolo pure, vale anche per i fenomeni del tennis. Roger in primis, che l’8 agosto festeggerà i 38 anni. Anche lui, il Divino, può essere considerato un decano. Ma Roger non è il più anziano che ha giocato una finale a Wimbledon. Nel 1974, per chi ha buona memoria (ndr: Clerici dice di non averla) ammirai un allora quarantenne Ken Rosewall, nativo di Sydney, che non riuscì a tenere a bada un giovane Jimmy Connors». Si dice che il mancato successo a Wimbledon, per l’australiano fu l’unico, o uno dei pochissimi rimpianti di una carriera lunghissima e straordinaria. «Roger – prosegue Gianni – ha giocato dodici finali su questa magica erbetta, che con il tempo si è pure trasformata diventando più lenta. E, forse, anche più adatta a giocatori con altre caratteristiche».

Si può dire che il tennis di Federer, vincitore a Wimbledon per la prima volta nel 2003, sia cambiato parecchio?

«Questo è un fatto certo. Diversi anni fa dissi che Ruggero è l’unico campione che potrebbe prendere in mano una racchetta di legno e tenere testa ai campioni di ieri. L’evoluzione del tennis è stata impressionante. C’è stata una generazione di picchiatori, che francamente non mi hanno mai entusiasmato. Per reggere il passo di questi atleti palestrati, il basilese ha dovuto rimettersi in gioco. E, almeno in parte, anche aggiornare il suo tennis. In semifinale, contro Nadal, Roger ha mostrato una grande disinvoltura nel suo colpo ritenuto più debole o, meglio, meno forte. I suoi rovesci giocati a tutto braccio, erano privi di incertezze. Sì, posso dire che anch’io ne sono rimasto incantato».

Per diverse ragioni (mutamenti di racchette, cordature e materiali in senso lato), lei ha spesso affermato che il tennis dovesse essere diviso in epoche storiche. È davvero impossibile fare confronti con i campioni del passato?

«Per carità, i confronti si possono sempre fare, ma lasciano spesso il tempo che trovano. Quanto a Roger, è vero, più volte, anche per distanziarmi dai cori, ho affermato che non è il più grande di tutti i tempi, ma piuttosto il migliore della sua epoca. Una volta lo definii il Mozart della racchetta. Oggi sono pronto a rivedere la mia tesi e a metterlo sul gradino più alto. Lo dico anche perché ho avuto il privilegio di vederlo vincere il suo primo torneo a Milano, di ammirarlo al suo debutto in Coppa Davis (ndr: proprio contro l’Italia a Neuchâtel nel 1999), di seguire dal vivo i suoi otto successi a Wimbledon – ahi me, non la finale 2019 contro Djokovic e anche un buon numero dei suoi oltre cento successi in carriera».

Cosa distingue Roger dai suoi colleghi sul circuito? «Beh, innanzitutto un’educazione tipicamente svizzera, che non è un fatto genetico. A guardar bene, anche in questo campo, che poco ha a che vedere con la tecnica, c’è però stata un’evoluzione. I più anziani ricorderanno ancora un giovanissimo Roger che faticava a trattenere la rabbia e che mandava racchette ai quattro venti».

Lei ha scritto un volume («500 anni di tennis»), che ancora oggi è la Bibbia per più di una generazione di appassionati, eppure non ha mai firmato un suo volume sul basilese. «Altri lo hanno fatto, a incominciare dai vostri Roger Jaunin e René Stauffer. Nella mia biblioteca ci saranno almeno sedici libri su Roger. Uno di questi (ndr: «Il codice Federer») è stato scritto da Stefano Semeraro. Lui mi ha fatto l’onore di chiedermi la prefazione».