Guerra dei dazi e globalizzazione

Di Alfonso Tuor - La maggior parte degli analisti prevede che la Cina sarà il Paese perdente della guerra commerciale avviata da Donald Trump. Ma questa valutazione è corretta? E inoltre il confronto tra le due maggiori economie del mondo è solo commerciale? Tentiamo di dare alcune risposte, che sicuramente presentano il rischio di risultare sbagliate. Se si guarda all'andamento della borsa cinese che ha perso oltre il 20% dall'inizio dell'anno e se si getta uno sguardo su Wall Street, si deve concludere che i mercati ritengono che il gigante asiatico sarà il Paese a maggiore rischio. Questa conclusione si basa sulla convinzione che in una guerra commerciale perde chi esporta di più. Quindi, dato che la Cina l'anno scorso aveva un attivo di 375 miliardi di dollari negli scambi commerciali con gli Stati Uniti, sarà il Paese perdente. Questa analisi non tiene conto del fatto che in Cina sono attive le principali multinazionali americane, le quali vendono nel Paese asiatico beni per circa 250 miliardi di dollari e che esportano negli Stati Uniti prodotti per circa 50 miliardi, ossia il 10% circa del totale delle esportazioni cinesi. Non tiene nemmeno conto che queste imprese sono potenzialmente soggette a misure amministrative di Pechino che potrebbero rendere la loro attività più difficile. E infine non tiene conto che il mercato cinese è il maggiore del mondo, dove quindi si stabiliranno sempre più gli standard industriali a livello mondiale, e che le operazioni di fusione e acquisizione delle grandi società internazionali hanno bisogno del consenso cinese, come ha dimostrato il no di Pechino che ha provocato recentemente il fallimento dell'acquisto dell'olandese NXP da parte del gigante dei semiconduttori americano Qualcomm. Ma vi sono altri motivi che inducono alla prudenza. Il primo è che il Governo ha già preannunciato le misure per limitare l'impatto dei nuovi dazi americani. Esse consistono in tagli delle tasse e in un più facile accesso al credito delle imprese private. Il secondo è che le misure americane accelereranno il processo già da tempo in corso di delocalizzare la produzione in Vietnam, Cambogia e Bangladesh. Il risultato a lungo termine sarà quello voluto dal Governo: ridurre il peso delle produzioni a minore valore aggiunto e puntare sempre più rapidamente sull'automazione e sulle nuove tecnologie. La vera partita si gioca dunque sul medio e lungo termine. Ed è a queste scadenze che guarda Pechino, che è sempre più convinta che il confronto commerciale con Washington faccia parte di una guerra asimmetrica lanciata dagli Stati Uniti per far deragliare l'economia cinese e quindi per contenere il principale rivale della superpotenza americana. Ed è questo il maggiore pericolo dell'attuale confronto. Infatti si rischia di passare dalla guerra commerciale e propagandistica ad una riedizione della guerra fredda. Vi è ancora poco tempo per evitare questa deriva. Il confronto con la Cina è indubbiamente quello destinato a non aver solo riflessi economici, ma la politica commerciale della Casa Bianca ha messo sotto tiro anche l'Unione europea e il Canada, dopo aver raggiunto un'intesa con il Messico che prevede tra l'altro che una parte dell'export messicano possa essere effettuato solo da imprese che assicurano minimi salariali paragonabili a quelli americani. E infatti il giudizio su queste scelte di Donald Trump si potrà dare solo dopo aver verificato i loro effetti sui livelli occupazionali e sulle dinamiche salariali negli Stati Uniti. Sta di fatto che il presidente americano ha messo giustamente in discussione le politiche mercantilistiche di alcuni Paesi come la Germania, l'Olanda, il Giappone e ovviamente la Cina e sta di fatto demolendo il processo di globalizzazione che in molti Paesi di vecchia industrializzazione ha provocato dumping salariale e disoccupazione.