Hàrem e Haràm

C’è un termine che spiega il Medio Oriente meglio di molti altri. Meglio di jihad, meglio di islam e meglio di burqa (che oltretutto è un abito afghano o pakistano). Un termine che in qualche modo è la cifra della differenza tra Oriente e Occidente: haràm.
Non è una parola a cui siamo del tutto estranei. In una sua declinazione, hàrem, la conosciamo fin dal tempo in cui abbiamo preso familiarità con le odalische o ci siamo misurati con la letteratura «esotica». Harem: il luogo della casa riservato alle donne. Per esteso: il recinto sacro della «privatezza», della «riservatezza», della «discrezione», il luogo proibito.
Hàrem e haràm – che provengono dalla stessa radice hrm – raccontano dunque, in modi leggermente diversi, della preminenza del proibito nelle culture mediorientali. E in questo senso segnano una netta frattura rispetto all’Occidente liberale, libertario e libertino. Laddove la nostra libertà è tendenzialmente senza limiti, quella «orientale» deve rispondere al principio che se qualcosa è haràm semplicemente non si può fare: certi territori appartengono al «sacro» e il «sacro» non si può violare. Così haràm diventa tutto ciò che oltraggia la discrezione, la privatezza, la riservatezza. Haràm è deridere le figure della religione a partire naturalmente da Maometto, haràm è assumere atteggiamenti socialmente o sessualmente riprovevoli, haràm è far uso di parolacce e haràm è deridere i più deboli.
Ma nella dilatazione sempre più ossessiva del termine – favorita, in tempi recenti, dall’influenza degli «islamisti» sui costumi generali – haràm diventa anche molto altro: indossare abiti succinti, mostrare atteggiamenti fin troppo disinvolti, usare violenza contro anziani e bambini, pretendere sforzi eccessivi da chi non può compierli e via dicendo. Insomma, haràm diventa non solo bere alcolici e nutrirsi di carne di maiale, ma qualsiasi cosa «non si dovrebbe fare».
Una forma di rispetto per i più indifesi, per le norme e i precetti più sacri, che si muove sul crinale tra moralità e moralismo. E che spesso, non sempre a torto, fa gridare l’Occidente al «fanatismo».
Ma questo è appunto il nodo della questione: come esistono sconfinamenti «occidentali» dalla libertà a forme raccapriccianti di libertinismo, così esistono sconfinamenti «orientali» dalla moralità al moralismo. E forse proprio qui si gioca la partita più interessante, lo snodo del dialogo fra civiltà: imparare che haràm non significa necessariamente «barbaro» e libertà non necessariamente «civiltà». Come sempre, dipende da quale significato vogliamo dare ai nostri rispettivi valori fondanti. Se haràm è girare per una donna in maglietta leggermente scollata d’estate e libertà è pornografia, forse Occidente e Oriente, nei loro estremismi, si assomigliano più di quanto vorrebbero.