I conti degli USA tra dazi e debito

Dell’età dell’oro promessa da Trump agli Stati Uniti per ora non c’è traccia. I dazi contro il resto del mondo e la disinvoltura con cui il presidente USA fa lievitare il debito pubblico non hanno sin qui migliorato la situazione economica americana. Semmai, vi sono alcuni peggioramenti. Il protezionismo aggressivo di Trump sta creando problemi all’economia internazionale, certo, ma non sta aiutando neppure l’economia a stelle e strisce. Il tanto richiamato deficit commerciale USA, che Trump vorrebbe ridurre attraverso i dazi all’import, sinora è aumentato.
Gli ultimi dati disponibili, forniti dagli uffici governativi americani, mostrano che tra gennaio e luglio di quest’anno il deficit USA nei commerci è stato di 654 miliardi di dollari, contro i 499 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso. La cifra riguarda il totale di merci e servizi. È vero che nei primi tre mesi c’è stato un balzo dell’import per evitare i dazi in partenza da aprile, ma è anche vero che negli altri quattro mesi c’è stato un rallentamento, sì, ma non la caduta delle importazioni desiderata dai sostenitori di Trump. Il risultato è quello indicato. Le cose cambieranno, il presidente USA riuscirà nei prossimi mesi a ridurre il deficit commerciale con il metodo brutale dei dazi? Vedremo, sin qui non è stato così.
Intanto sale l’inflazione americana. Quando si impongono dazi - e quelli di Trump sono di taglia larga, ne sa qualcosa anche la Svizzera – una delle conseguenze è l’aumento dei prezzi sul mercato interno. I nuovi dazi sono appena arrivati e dunque il meccanismo è solo all’inizio. A marzo di quest’anno l’inflazione negli Stati Uniti era al 2,4%, in agosto era al 2,9%. Mezzo punto percentuale di aumento in cinque mesi non è proprio cosa da nulla. Si potrebbe obiettare che il rincaro potrebbe venire da un ritmo superiore di crescita economica, che muove di più merci e servizi. Ma non è così. Dopo la contrazione nel primo trimestre e dopo il rimbalzo nel secondo, l’economia USA per le maggiori istituzioni economiche si avvia a chiudere il 2025 con un passo rallentato. Per il Fondo monetario internazionale il PIL americano quest’anno salirà dell’1,9%, contro il 2,8% del 2024. La disoccupazione USA nel frattempo non è scesa: era al 4,1% nel dicembre scorso ed era al 4,3% nell’agosto di quest’anno.
Per la Federal Reserve, la banca centrale USA, attaccata duramente da Trump, la situazione è a dir poco imbarazzante. Tagliando i tassi di interesse supporta la crescita economica e l’occupazione, ma facilita un aumento ulteriore dell’inflazione. Non tagliando i tassi si impegna nella lotta all’inflazione, ma non facilita crescita e occupazione. Ad aver portato la Federal Reserve in questa situazione per molti aspetti assurda è in larga misura proprio la linea di Trump, che nel nome di una discutibile riaffermazione della potenza politica USA, e di una malintesa lotta al deficit commerciale, contribuisce con l’errore dei dazi al rallentamento della crescita e allo stesso tempo all’aumento dei prezzi.
Sul versante dei conti pubblici, la situazione USA è tutt’altro che buona. Secondo il Fondo monetario il rapporto debito pubblico/PIL quest’anno salirà al 122,5%, dopo il 120,8% del 2024. Non è stato solo Trump a creare questo maxi debito, è chiaro, ma l’attuale presidente USA durante il suo primo mandato non ha contrastato l’aumento e ora tratta la riduzione come non prioritaria, anzi spesso non la tratta proprio. Secondo la gran parte delle proiezioni, gli introiti dei dazi diminuiranno in modo non sufficiente il deficit pubblico; quanto all’enorme debito pubblico, questi introiti gli faranno solo il solletico, per così dire. Nel frattempo i titoli di Stato americani non sono certo al loro meglio e il dollaro è a un livello basso, con beneficio per l’export USA ma con altri danni per l’import e per i prezzi interni. L’economia americana resta prima nel mondo per dimensioni, ma senza retromarce sui dazi e senza contenimenti del debito, sarà difficile vedere un’età dell’oro.