Il commento

I giganti buoni non uccidono le donne

Il commento di Prisca Dindo
© CdT/Archivio
Prisca Dindo
25.11.2020 06:00

Vacanze sulla Luna, città intelligenti, app che salvano la vita. Il futuro è presente e i giornalisti riportano la fantastica rivoluzione tecnologica con straordinaria apertura mentale. Purtroppo però, quando gli uomini massacrano le donne, le menti si richiudono e le penne affogano nel passato remoto.

Di fronte al sangue femminile che macchia con troppa frequenza la cronaca, qualcosa di ancestrale scatta nei giornalisti; all’improvviso l’efferato crimine si trasforma in un incidente di percorso del carnefice, mentre il dolore delle vittime - donne che soccombono sotto i colpi dei mariti, del fidanzato o di qualche amico – è relegato in secondo piano. La narrazione è degna della peggior telenovela patriarcale e trasuda sangue e passione. Per il carnefice si infilano i guanti di velluto, mentre per la vittima nessuna considerazione. Anzi, a volte «se l’è andata a cercare». Capita così che un uomo che uccide una ragazza nel fiore dei suoi anni perché il suo amore non è corrisposto viene descritto come «un gigante buono» («Il Giornale», 8 settembre 2019, omicidio di Elisa Pomarelli, 28 anni, ritrovata morta in un bosco piacentino).

Quello che ammazza a sangue freddo la moglie con i due gemelli nel cuore della notte, prima di togliersi la vita, viene descritto come un marito «legatissimo alla famiglia» che «non sopportava l’idea di perdere i due figli» (Tg5, RAI, «Corriere della Sera», 9 novembre 2020, uccisione di Barbara Gargano e infanticidio dei gemellini Alessandro e Aurora a Carignano). Quasi fosse legittimo eliminare la moglie che vuole separarsi.

Oppure ancora il ricco imprenditore che droga, tortura e stupra per un giorno intero una diciottenne, come il fondatore di Facile.it Alberto Maria Genovese, che viene ricordato soltanto per la sua brillante carriera: «È sempre stato un vulcano di idee, che non si è̀fermato un attimo e che, per il momento, è stato spento» («Il Sole 24ore» on line, 9 novembre). Poco importa se i dettagli della violenza fanno accapponare la pelle: per il giornalista della prestigiosa testata conta solo la brillante ascesa dell’enfant prodige dell’economia italiana. Le scuse e il ritocco dell’articolo sono giunti ore dopo l’indignazione dei social network.

Però tutto cambia se il violentatore è africano: allora la confusione dei ruoli sparisce e l’orrore riappare nella penna del giornalista. «È stato un immigrato della Sierra Leone a stuprare nella notte di Ferragosto una ragazza ventenne nel quartiere Trastevere a Roma. La vittima di questo orrore è una ragazza di 21 anni recatasi con amici a casa di quello che poi si è trasformato nel suo aguzzino» («Secolo d’Italia» online, 14 agosto 2020, violenza carnale a Roma).

I giornalisti non possono più minimizzare la violenza sulle donne.

In Italia durante il primo confinamento per il coronavirus, ogni due giorni una donna è stata uccisa in famiglia (dossier Viminale, Violenza di genere e omicidi volontari con vittime donne, gennaio – giugno 2020). Nel nostro Paese in media due al mese (interpellanza di_Marina Carobbio, consigliera agli Stati: Eradicare il femminicidio in Svizzerea). Ogni anno in Svizzera si registrano più di ventimila casi di violenza di genere.

Se vogliamo fermare la strage, il racconto della violenza contro le donne deve rispettare le vittime. I giornalisti devono smetterla di romanzare la vita, di confondere l’amore con il possesso, altrimenti alimentano il culto della violenza. Stupri e femminicidi sono crimini, e chi li commette è un criminale non un cuore infranto. Anche quando il criminale è «uno dei nostri».