I segreti del ciuffo di Trump

IL COMMENTO DI GERARDO MORINA
Gerardo Morina
Gerardo Morina
08.01.2018 06:00

DI GERARDO MORINA - Con l'urgente curiosità di leggere i retroscena di chi abita alla Casa Bianca, gli americani sono corsi nelle librerie e su Amazon per accaparrarsi, prima che segnasse il tutto esaurito come caso editoriale dell'anno e prima ancora che i legali di Donald Trump riuscissero a bloccarne o ritardarne la pubblicazione, il libro di Michael Wolff «Fire and Fury». Sono stati in gran parte accontentati soprattutto in merito a ghiotti dettagli da rotocalco. Nessuno prima d'ora aveva per esempio rivelato che quando, nelle prime ore della notte elettorale dell'8 novembre 2016, si cominciò a capire che la vittoria di Trump era a portata di mano, il futuro presidente sbiancò in viso tanto da sembrare un fantasma e la moglie Melania scoppiò in lacrime, lacrime non certo di gioia ma di terrore per il peso che stava per arrivare. Particolare ancora più ghiotto perché continuava a turbare il sonno di molti è poi l'origine del famoso ciuffo di «The Donald», che altro non è che un vaporoso riporto per coprire i risultati di operazioni subìte al cuoio capelluto, un trucco che va di pari passo con la tinta usata dal presidente, un noto colorante che le indicazioni dicono occorre lasciare depositare a lungo per ottenere una tonalità più scura. Il fatto è che il presidente è ogni volta impaziente e tende a toglierselo subito: di qui il colore biondo-arancione, la stessa tonalità del becco di un altro Donald, Donald Duck, ovvero il disneyano Paperino. A svelarlo, nel libro di Wolff, è nientemeno che Ivanka, la figlia prediletta del presidente, il cui sogno, è scritto, è di diventare la prima donna presidente della storia americana. Dettagli ghiotti ma politicamente innocui se confrontati con le dichiarazioni attribuite nel saggio a Steve Bannon, l'ex-stratega e consigliere presidenziale estromesso ad agosto perché caduto in disgrazia. A quanto si legge nel libro, Bannon è stato durissimo con il primogenito di Trump, Donald junior, accusandolo di aver accettato nel giugno 2016 un incontro «proditorio e antipatriottico» nella Trump Tower di Manhattan (insieme al genero di Trump, Jared Kushner, marito di Ivanka e all'allora capo della organizzazione elettorale Paul Manafort) con gli emissari del Cremlino che promettevano notizie infamanti su Hillary Clinton. C'è da credere a Wolff, giornalista di gossip politico e scrittore sopra le righe che ha già suscitato scalpore con una biografia su Rupert Murdoch, voluta e poi ripudiata dallo stesso magnate della stampa? Certo è che le affermazioni messe in bocca a Bannon, da lui non smentite, anche sotto forma di illazioni non fanno che gettare sale sulle ferite che il presidente e il suo entourage si attendono sulla vicenda «Russiagate», peraltro ancora tutta da provare. Ma tanto basta a toccare sul vivo Trump, che accusa Wolff di palesi falsità, evidenti per il presidente anche in merito a un altro dettaglio scottante, ovvero il fatto che gli stessi collaboratori del capo della Casa Bianca avrebbero più volte messo in dubbio la sua stabilità mentale. Il che ha provocato le ire di Trump, che si è sentito in dovere di ribattere con le parole: «Io penso di essere non solo intelligente, ma un genio, e un genio molto stabile». Certo è che proprio su questo punto è in corso un dibattito non destinato a sparire. C'è chi paragona lo stato mentale di Trump a quello di re Giorgio III d'Inghilterra, il cui crollo psichico costrinse nel 1811 il figlio maggiore del sovrano a subentrare come principe reggente fino alla morte del padre. Oppure si ricorda l'Alzheimer che colpì Ronald Reagan quando, si dice, era ancora in carica. La stessa storia presidenziale americana è ricca di altri precedenti. Non è più un segreto che Abraham Lincoln cadeva preda a depressioni, che John F. Kennedy assumeva ansiolitici e che a Lyndon Johnson venne diagnosticato uno stato di paranoia. Per non parlare di Richard Nixon che, nell'ultima fase della sua presidenza, faceva uso di Valium. Ai nostri giorni è emerso che un gruppo di 27 psichiatri, guidati da Bandy Lee dell'Università di Yale, ha addirittura diagnosticato a distanza il presidente Trump per chiederne la deposizione, se non fosse che gli stessi psichiatri sono incorsi in un vizio di forma, quello conosciuto come «clausola Goldwater», che proibisce ai membri dell'Associazione degli psichiatri americani di astenersi da diagnosi su persone non visitate ed esaminate di persona.
Ma non si ferma qui l'accanimento dei nemici di Trump, ovvero di coloro che, nei ranghi democratici ma in parte anche in quelli repubblicani, vedono nel presidente un corpo estraneo al tessuto politico. Mentre attendono che emerga qualche certezza dal groviglio che avvolge le presunte interferenze russe sulle elezioni e comunque nell'improbabilità tecnica di una messa in stato d'accusa del presidente, la via percorsa è un'altra. Parlare sempre più dell'instabilità mentale di Trump può infatti essere una base per arrivare ad assoggettarlo al 25. emendamento della Costituzione americana, quello riguardante le procedure per rimpiazzare il presidente o il vicepresidente nel caso di morte, rimozione, dimissione o incapacità di chi si trova in carica.Un agguato da cui deve difendersi anche il presidente col ciuffo.