I Tories e la fossa dei leoni

Di Gerardo Morina - Con i movimenti delle braccia un po' robotici di chi anche da giovane non ha frequentato granché le discoteche, la premier britannica Theresa May è salita ieri sul palco per concludere a passo di danza il congresso annuale del partito conservatore britannico che si è tenuto per tre giorni a Birmingham. Ad accompagnarla le note di «Dancing Queen», un famoso motivo datato 1976 del gruppo musicale pop svedese Abba. È stato un buon modo per introdurre un discorso ispirato all'ottimismo e alla riaffermazione del suo ruolo con cui May ha cercato di infondere linfa positiva nell'organismo di un partito quanto mai diviso dalla conflittualità ad oltranza. Un ballo inteso anche per cercare di addomesticare una compagine Tory trasformatasi sempre più in una fossa dei leoni dove (titolo del «Daily Mail» di ieri) «i pugnali sono sguainati» e non sono in pochi a reclamare la testa dell'inquilina di Downing Street. Lo scettro di «regina danzante» minaccia infatti da un giorno all'altro di sfuggirle di mano a causa dei numerosi nemici che non fanno mistero di auspicare le sue dimissioni da premier. Un passo concreto in questo senso è stato compiuto poche ore prima del discorso conclusivo attraverso una mozione di sfiducia presentata sotto forma di lettera al Comitato 1922 del partito conservatore dal deputato James Duddridge. In base al regolamento, occorrono almeno 48 lettere per arrivare a contestare la leadership, non gradita in massima parte all'ala più intransigente del partito che vorrebbe un'uscita del Regno Unito dall'Unione europea molto più netta («hard») di quella «soft» (tale da tenere almeno in parte Londra ancorata all'Ue anche dopo la Brexit) che emerge dal piano approvato lo scorso luglio nella residenza dei Chequers dai ministri dell'attuale Governo. Nessuna apertura o compromesso sono invece concepibili per Boris Johnson, l'ex ministro degli Esteri divenuto il principale avversario della premier. Martedì Johnson ha catalizzato la platea dei conservatori accusando May di tradire l'elettorato che si consegnerà così nelle braccia dell'ultrasinistra (il leader laburista Jeremy Corbyn non aspetta altro) a causa di un piano definito «un pericoloso imbroglio, politicamente umiliante per un'economia da due miliardi di sterline» che «non ci restituisce il controllo delle nostre decisioni». Se si bada alle cifre, Johnson difficilmente potrà disporre di un numero adeguato di seguaci per far crollare May, ma una più seria minaccia alla stabilità della premier arriva semmai dagli unionisti dell'Ulster (DUP), su cui l'Esecutivo di Londra si regge per un soffio in Parlamento. Qui l'oggetto del contendere è quanto mai cruciale perché riguarda la dogana tra Irlanda del Nord (territorio britannico) e Repubblica d'Irlanda (membro Ue), una volta che Londra esca dal mercato unico. Da parte sua, Bruxelles ha proposto un piano che manterrebbe di fatto l'Irlanda del Nord nell'unione doganale, prevedendo l'esistenza di una frontiera di controllo nel Mare d'Irlanda. In base a recenti rivelazioni del «Times», May sarebbe pronta a proporre a Bruxelles il proprio allineamento ai regolamenti doganali europei sui beni al termine del periodo di transizione nel dicembre 2020. Se l'Unione europea accettasse l'offerta, i beni in entrata in Irlanda del Nord dal Regno Unito dovrebbero rispettare gli standard europei e subire precise verifiche, clausola che sia gli unionisti dell'Ulster sia i ribelli di Boris Johnson fanno oggetto dei loro strali, dal momento che ciò minerebbe a loro avviso l'autonomia di Londra. Sullo sfondo rimangono le trattative tuttora in corso con Bruxelles che riprenderanno la settimana prossima, dopo essersi più volte arenate. A sentire May, Londra non ha paura di arrivare alla data ufficiale di uscita dall'Ue stabilita per il prossimo 29 marzo con la prospettiva di un «no deal», ovvero l'assenza di un vero e proprio accordo. Per il Governo britannico, tale ipotesi non sarebbe la soluzione ideale né per il Regno Unito né per l'Unione europea, ma eliminarla completamente dall'orizzonte indebolirebbe la posizione negoziale di Londra. Mentre quasi tutto è ancora in alto mare e in due anni (ovvero dal referendum del 23 giugno 2016 ad oggi) il processo legato alla Brexit è già costato al Regno Unito la ragguardevole cifra di 52 miliardi di sterline, la politica britannica appare ripiegata su se stessa e non sa pensare ad altro (timidi, nel discorso di May, gli accenni a temi di politica interna come la sovrattassa sulla casa per gli stranieri non residenti e la legislazione sulla politica migratoria). Con un partito conservatore preda, come ha osservato martedì il «Financial Times», di quella «nevrosi europea che in passato ha distrutto il cammino di ben quattro premier». Scatterà presto l'ora anche per la «regina danzante»?