Usa-corea del nord

I venti passi di Trump per entrare nella Storia

Il commento di Gerardo Morina
Gerardo Morina
Gerardo Morina
01.07.2019 06:00

Compiendo non più di venti passi oltre il 38. parallelo ed entrando per qualche secondo in territorio nordcoreano, il presidente Donald Trump è passato alla Storia. Mai infatti un inquilino della Casa Bianca in carica aveva osato l’inosabile, ovvero mettere piede in quello che internazionalmente viene soprannominato «il Regno eremita», ovvero lo Stato totalitario comunista della dinastia dei Kim, tradizionalmente isolato dal mondo.

Reduce dal G20 di Osaka, Trump è andato prima a Panmunjom, il cosiddetto villaggio della pace situato al confine tra le due Coree nella Zona demilitarizzata (DMZ) dove nel 1953 venne firmato l’armistizio che pose fine alla Guerra di Corea. Poi si è diretto al confine dove, dalla sponda nordcoreana si è improvvisamente materializzato Kim Jong-Un per un incontro organizzato in fretta e furia ma non per questo meno efficace da un punto di vista mediatico.

E pensare che tutto era partito da un tweet lanciato da The Donald a Kim quando ancora si trovava in Giappone. La risposta del leader nordcoreano, tenuta segreta fino all’ultimo, era stata positiva ed è allora che le due Coree sono diventate una meta obbligata del presidente prima del suo ritorno a Washington. L’importanza dell’incontro è stata sottolineata da entrambi i leader. Kim ha definito «eccezionale» il suo rapporto con Trump e l’ha lodato per il suo atto «coraggioso e determinato». Da parte sua Trump ha replicato affermando che «passare al di là della linea di demarcazione è stato un grande onore» e che quella con il leader di Pyongyang, da ieri invitato alla Casa Bianca, «è una grande amicizia».

Sorrisi, stretta di mano, una grande «photo opportunity». Indubbiamente da parte del presidente americano si è trattato di uno degli ormai numerosi colpi di teatro a cui ha abituato la sua Amministrazione. La sua abilità nello sfruttare le occasioni mediatiche non è passata inosservata. Regista e coreografo dell’evento è stato infatti il presidente in persona, spiazzando sia il suo staff sia giornali e radiotelevisioni. Insomma, un copione zeppo di simbolismi, con al centro i due amiconi Donald e Kim. Molta apparenza, ma poca sostanza, invece, se si bada al sodo, valutato attraverso gli sviluppi concreti che l’incontro potrà avere nei rapporti e nella ripresa dei negoziati tra Washington e Pyongyang, anche a giudicare dalle analoghe e sterili esperienze passate.

Era già accaduto con il vertice di Singapore nel 2018 e con quello di Hanoi nel febbraio di quest’anno. Anche allora, al di là di ogni apparenza, avevano pesato enormi incomprensioni, aspettative diverse e soprattutto un modo di fare diplomazia senza tener conto dei canali tradizionali estremamente rischioso. Anche oggi, almeno a parole, la Corea del Nord si dichiara ansiosa di veder rimosse le sanzioni economiche che gravano sulla sua economia. E anche oggi, dal momento che non è stato segnato alcun progresso, gli Stati Uniti chiedono la denuclearizzazione della penisola coreana. A preoccupare Washington sono le informazioni della sua intelligence che dicono che la Corea del Nord procede nella massima segretezza nel suo programma nucleare, pur attenendosi ad un divieto di sperimentazione per quanto riguarda le armi nucleari e i missili balistici.

Persistono dunque le premesse affinché le due parti si sforzino sì di mantenere toni piuttosto cordiali, per non fare saltare del tutto i negoziati ed evitare di tornare al punto di partenza. Occorre però non dimenticare che i precedenti vertici tra i due leader erano stati accompagnati da un clima di euforia che alla fine non aveva però trovato riscontri nella realtà. Se a Singapore c’era stata l’attenuante della primissima conoscenza, dopo Hanoi Trump era stato costretto ad ammettere che i colloqui erano stati interrotti sul tema delle sanzioni. In sostanza, Pyongyang aveva offerto di chiudere la sua installazione nucleare di Yongbyon in cambio di di un parziale (non totale, come aveva capito in un primo momento Trump) annullamento delle sanzioni imposte al Paese dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Il problema di non comprendere le rispettive aspettative, e quindi di stabilire che strategia negoziale usare, ha insomma sempre permeato i colloqui bilaterali tra i due Paesi. Tale problema si spiega in parte con la scelta della precedente Amministrazione americana di ridurre gli stanziamenti elargiti allo scopo di scrutare il funzionamento interno del regime di Kim Jong-Un. È però d’altra parte anche il risultato di una scelta precisa fatta da Trump, quella di puntare su un rapporto personale e diretto tra i due leader, aggirando le procedure della diplomazia tradizionale. Un approccio che tuttora presenta un rischio: che in caso di fallimento non esiste una carica più alta che possa negoziare un compromesso per salvare un eventuale accordo.