IA e scuola, parliamone

Il nostro cervello è pigro per natura, appena può risparmia energia – proprio perché di energia ne consuma tanta. Quando vede una scorciatoia, la prende. Riflette solo se obbligato ed è una fatica. Fortunatamente invece reagisce come un fulmine, che neppure ce ne accorgiamo, quando deve toglierci da un pericolo imminente. Ci fa fare un balzo indietro se cominciamo ad attraversare la strada e arriva un’auto. Daniel Kahneman, Nobel per l’economia, nel suo Pensieri lenti e veloci ha descritto bene queste due parti del cervello umano.
L’intelligenza generativa, come ChatGPT (OpenAI) o Gemini (Google), ci seduce proprio perché pensare è faticoso. Basta una breve richiesta e all’istante l’applicazione ci offre un fiume di informazioni. Come biasimare gli studenti che se ne servono? Affidare un compito a casa oppure in aula, se l’allievo ha il telefonino con sé, non ha più granché senso. Quasi tutti i giovani svizzeri utilizzano l’intelligenza artificiale (il 93%, rapporto dell’Uni di Zurigo). Temi, tesi di maturità o lavori scritti a casa non dicono più niente sulla capacità di ricerca, approfondimento e redazione di testi. L’intelligenza generativa è qui per restare. Non perché sia più intelligente di noi, ma perché siamo tendenzialmente pigri. È veloce e sempre disponibile. E poi ha ancora un che di magico. Solo se si fa attenzione ci si rende conto delle imprecisioni. Ma vediamo gli errori solo se già conosciamo bene la materia.
Per la scuola le questioni che si pongono sono più di una. Pensare di vietarne l’uso è impossibile. Ha più senso cercare di integrare l’intelligenza generativa in modo trasparente e per quel che vale – proprio perché non è ancora così intelligente. La scuola non ha nulla da temere, almeno per il prossimo futuro, soprattutto se insegna a vederne le debolezze, a scoprirne le allucinazioni. Per esempio, ChatGPT 5, l’ultimo sistema frutto di miliardi di dollari di investimenti, neanche lontanamente mantiene le promesse iperboliche, tra cui quella di essere ad un passo dall’intelligenza generale, come la nostra per intenderci. ChatGPT, Gemini o Claude continuano a non ragionare, non capiscono cosa dicono, inanellano solo una parola dietro l’altra in base a calcoli di probabilità. Proprio per questo possono diventare uno strumento didattico per insegnare agli studenti a ragionare, ma per davvero, in modo approfondito e critico. La scuola da molto tempo non si limita più a trasmettere nozioni, ha capito che l’intelligenza (umana) è ben altro che ripetere un’idea o un concetto senza averli capiti - perché questo è appunto quello che fa ChatGPT. Ma al contrario, è così importante che gli allievi capiscano in cosa consiste l’intelligenza artificiale. Perché sta succedendo sotto i nostri occhi e si insinua in ogni ambito della nostra quotidianità oltre che nelle aule scolastiche.
E poi, è bene tenere a mente cosa succede al nostro cervello, a cui piace un sacco potersi affidare pigramente ai Chatbot. Alcuni ricercatori del MIT hanno osservato un gruppo di studenti a cui è stato chiesto di scrivere un tema. Una parte senza nessun aiuto, altri potevano googlare e altri ancora potevano usare ChatGPT. Chiari i risultati: chi aveva riflettuto da solo, era poi capace di riferire sul tema. Mentre chi aveva usato ChatGPT non era riuscito a spiegare niente di cosa aveva scritto. Chi aveva googlato, aveva capito almeno un po’.
La scuola è insostituibile per trasmettere conoscenze e allo stesso tempo insegnare a pensare – per il resto della vita. E riflettere criticamente sull’intelligenza artificiale è urgente, necessario e utile. L’uso dei chatbot a scuola e a casa è generalizzato – impossibile chiudere gli occhi. Anche vietando i telefonini in classe risolviamo forse alcuni problemi ma ne restano aperti tanti altri. Il primo fra tutti, la tendenza così umana a scaricare e delegare i compiti cognitivi più onerosi. Si chiama «cognitive offloading» e alla lunga non fa bene. A nessuno, né ai giovani né agli adulti. In altre parole, ognuno di noi è dotato di una intelligenza stupenda, difficile da eguagliare. Peccato perderne l’uso.