Il capobastone che sembrava un nonno

Emanuele Gagliardi
Emanuele Gagliardi
25.07.2016 06:00

di EMANUELE GAGLIARDI - La storia della mafia è una storia intrisa di violenza, di sangue, connivenze, denaro sporco, traffici illeciti e di morte. Che ha toccato, tra l'altro, poliziotti, magistrati, politici, sacerdoti, industriali, giornalisti, piccoli commercianti, uomini, donne e pure bambini. Non pochi coloro che hanno perso la vita a causa sua. Da anni, i processi di mafia non si contano più. Basta accendere radio e tv alla mattina, guardare i siti web dei giornali e spesso si sente parlare di spedizioni mattutine di agenti o carabinieri che si concludono con l'arresto di numerose persone legate a organizzazioni criminali. Da anni la piovra, con i suoi tentacoli, ha raggiunto anche il Nord Italia e non solo.

Un cronista giudiziario e di cronaca nera frequenta, quotidianamente, i tribunali: ha contatti con agenti, magistrati, avvocati. All'inizio degli anni Settanta, lavoravamo in un quotidiano comasco. Quando si seguivano i processi si restava in aula, a volte, per ore e, successivamente, nei corridoi o nel grande atrio del tribunale ad attendere le sentenze. Una sera, il vicedirettore del giornale mi chiamò nel suo ufficio e mi parlò del processo a cui avrei assistito il giorno dopo: mi parlò della vicenda, una storia ingarbugliata (aggressioni, estorsioni, incendi dolosi, minacce, pestaggi). Mi disse che i due imputati erano in odore di mafia. Come sempre, mi consigliò di attenermi ai fatti. «Non sarà un processo semplice», concluse. Aveva ragione. Il giorno dopo, con il collega dell'altro quotidiano comasco che seguiva la giudiziaria, andai in aula e presi posto nello spazio riservato ai cronisti. Dietro di noi una massiccia balaustra ed il pubblico che doveva stare in piedi. Chi era in prima fila, chinandosi un po' in avanti avrebbe potuto leggere i nostri appunti. Il dibattimento iniziò, diversi gli avvocati difensori: tra essi, uno solo del foro comasco. Ad un certo punto dell'udienza ci accorgemmo che dietro di noi c'erano due persone che probabilmente conoscevano gli imputati. Il processo durò qualche giorno. Il posto dei due era, comunque, rigorosamente sempre quello: dietro di noi. Quando li incontravamo nell'atrio ci fissavano un attimo e sembravano mostrarci cosa avevano in mano, le copie dei quotidiani per cui lavoravamo ed una terza: la testata nazionale di cui eravamo corrispondenti da Como. Il processo era spinoso: la parola mafia aleggiava soltanto, i testimoni (a volte pure le vittime) non si ricordavano più alcune circostanze. E la corte invitava a rammentare, minacciando sanzioni. Riferii tutto al mio vicedirettore. Il processo finì con le accuse ridimensionate e lievi condanne. La mattina dopo, con il solito collega raggiungemmo il tribunale per un altro processo. Nel piazzale davanti al Palazzo di giustizia, incontrammo ancora i due uomini che avevamo avuto alle nostre spalle per tutto il processo. In mezzo a loro un anziano, alto, elegante nel suo gessato scuro. Volto severo. Stavolta i quotidiani li aveva in mano solo lui. Dopo un po' se ne andarono. Non li rivedemmo più.

Più tardi, raccontammo questi episodi ad un maresciallo di lungo corso, comandante di una stazione dei carabinieri in Brianza. Lui ci spiegò che quella persona, probabilmente, l'avevamo già incontrata tempo prima. Poco tempo prima, infatti, sempre con il collega sopra citato, ci eravamo recati in Brianza dal militare in questione per raccogliere i dati di una notizia di nera. Poi, con lui, eravamo andati in cooperativa a bere un caffè. Appena entrati una voce: «Maresciallo buongiorno». La frase era stata pronunciata a voce alta da un anziano, sorridente, volto inclinato, seduto ad un tavolo: attorno a lui, una decina di persone. Tutti con i visi ossequiosi verso il militare. Una volta usciti (accompagnati dal corale saluto dei presenti), chiedemmo informazioni: «Quel signore è stato mandato qui al confino dal Sud. Un errore. Perché così continuerà a fare qui, presumibilmente, quanto già faceva al suo paese». Quindi, aggiunse che si diceva fosse persona di spicco della 'ndrangheta al suo paese: un capobastone. «Ecco - concluse - quello che avete notato davanti al tribunale era lui». «Ma lo abbiamo visto solo per un attimo - disse il mio collega - sembrava più un nonno, un tipo piccolo, basso, tranquillo quello in cooperativa». «Perché era seduto», tagliò corto il maresciallo, che, evidentemente, la storia la conosceva bene in tutti i suoi dettagli. Son passati quarant'anni ma quelle frasi, in questi giorni, leggendo la cronaca, ci tornano spesso in mente.