Il coraggio di guardare negli occhi il dolore

di CARLO SILINI - Se c'è una cosa che ti insegnano le tragedie è che il vero dolore non lo puoi guardare negli occhi. Non ne hai la forza, e se ce l'hai è oscena. Il vero dolore l'ho incontrato per caso ieri all'imbocco del Pont d'Austerlitz. C'erano gli immancabili agenti con la mitraglietta che presidiavano l'ingresso di un Istituto di medicina legale, anzi, la via di un centinaio di metri che porta all'ospedale, un casermone di mattoni color senape a pochi metri dalla Senna. Sulla striscia d'asfalto, dietro gli agenti, vedevi un gazebo di tela cerata bianca e arancione dentro il quale le persone entravano trattenendo il fiato e poi, uscendone, piangevano.«Scusi, cosa succede?» Il ragazzo di guardia, gli occhi lucidi, fa segno di no con la testa. «Mi dispiace, non posso parlare. Sono gli ordini». «Ci sono i corpi delle vittime là dentro?», insisto. L'agente tace e si guarda intorno. Lo interpreto come un invito a guardarmi in giro.
Proprio a due passi da me vedo un uomo alto sui trent'anni di carnagione scura che esplode in un pianto inconsolabile, sembra un bambino rimasto solo nell'universo. Vede che lo guardo. Mi guarda a sua volta, fisso, con grossi occhi neri tutti venati di sangue e non riesco a reggerne lo sguardo. Abbasso la testa e mi avvicino. È un momento in cui vorrei tanto non esistere.
«Hai perso qualcuno? È là dentro?». Annuisce senza smettere di piangere.
«È morto negli attentati di venerdì?». «Sì», riesce finalmente a dire, e poi comincia a raccontare, molto confusamente qualcosa di difficile decifrazione. «Veniva dall'Egitto, come me», capisco alla fine, dopo attento esame delle sue parole. «Eravamo molto amici», ora la sua voce è più chiara, la parlata più calma.
«Pensa, era al ristorante (quindi, deduco, "la Bonne Bière", 5 morti, o le "Petit Camboge" e le "Carillon", 15 morti) e lo sai cosa stava facendo?». Scuoto la testa. «La partita. Si stava vedendo la partita fra Francia e Germania che era in corso allo Stade de France, capisci? Poi sono entrati e...». Non ce la fa a dirlo. Non ce la faccio ad ascoltarlo. Vorrei stringerlo, abbracciarlo. Si fa? Non si fa? Due suoi accompagnatori mi tolgono dall'impaccio e lo portano via sorreggendolo sotto le ascelle.
Benvenuto nel dolore di chi resta, rifletto sconsolato. Improvvisamente è come se mi si aprissero gli occhi. Non c'è angolo, in quello spiazzo, dove non ci sia qualcuno che piange, qualcuno che lo sostiene e qualcuno che tace e non sa che fare, forze dell'ordine comprese. Una ragazza tutta rossa in volto è trasfigurata dalle lacrime che le rigano la faccia sotto una cuffia di lana spessa che non la protegge dal male. Con lei ci sono due amiche, forse due parenti, che un po' la sorreggono, un po' si voltano a piangere a loro volta, senza farsi vedere da lei. I ruoli, nella tragedia, devono restare chiari: c'è chi è più vittima e chi lo è di meno. Tocca a quest'ultima essere forte, o fingere di esserlo.
Dall'istituto esce ora una donna di una certa età, i capelli scarmigliati che fluttuano nel vento gelido. L'accompagnano passo passo, con delicatezza, come se stessero calpestando un cuore, non il marciapiede. Se ne va urlando, a braccetto di un uomo e una donna silenziosi dal portamento solenne. Non capisco cosa urli, ma è sempre la stessa parola, forse il nome di chi l'ha lasciata.
Osservo due ventenni biondi, ragazzi molto belli e molto giovani, sembrano angeli e vestono la tuta sgargiante della protezione civile. Provo a immaginare i loro pensieri, lì in mezzo all'abisso del non senso e della sofferenza che diventa urlo, disperazione. Capisco che pensano veloce, gli angeli, che sono svegli. Entrambi stanno guardando nella medesima direzione, verso un'anziana ferma sul ponte che guarda giù, guarda l'acqua della Senna. Uno sguardo d'intesa e corrono da lei, la prendono dolcemente per le braccia, la ritraggono dalla tentazione. Le parlano sorridendo e lei li segue, docile. Ne provo una sconfinata ammirazione. Loro ce l'hanno fatta a guardarla negli occhi.