Fogli al vento

Il dilemma Zelensky a Sanremo

Ma allora ci sarà ’sto Zelensky al festival di Sanremo? Giusto, sbagliato? Ogni società ha i dilemmi che si merita
Michele Fazioli
Michele Fazioli
06.02.2023 06:00

Ma allora ci sarà ’sto Zelensky al festival di Sanremo? Giusto, sbagliato? Ogni società ha i dilemmi che si merita. Diciamo qui che Zelensky dopo aver parlato dal vivo o in collegamento con parlamenti ed eventi e consessi in tutto il mondo può ben dire la sua, sotto forma di accorato appello registrato, anche dentro il minestrone del Festival della canzone italiana. Dal suo punto di vista, peraltro difficilmente contestabile sul piano del diritto internazionale, lui fa tutto quel che può fare per tenere desta la resistenza del suo Paese davanti a una aggressione armata devastante. Nella macedonia del Festival ci può stare anche Zelensky, diamine. Potrà poi però anche succedere in Italia che il suo drammatico appello finirà per rafforzare da un lato le convinzioni di chi sta già nettamente dalla parte dell’Ucraina ma d’altro canto aumenterà il fastidio di chi sotto sotto è convinto o si lascia convincere che la NATO comunque un po’ se l’è cercata e che mandare armi a go go non è più la soluzione. La partita pro e contro Zelensky incastonato a Sanremo finirà uno a uno anche dopo i tempi supplementari delle polemiche. Quel che in generale stride, prescindendo da Zelensky che sta facendo il suo drammatico lavoro, è la trasformazione (fenomeno unico in Europa) di un Festival delle canzonette in punto focale, simbolico e valoriale, come se fosse una festa nazionale spalmata su una intera settimana televisiva. Sanremo è diventato negli anni una melassa ambigua di messaggi e temi e si è moltiplicato in cinque serate interminabili con contorno di pre Festival e dopo Festival, streaming e TikTok e clip e processi alle canzoni, ospitate, cascata multimediale, paginate sui giornali. Sanremo, per noi che abbiamo anagrafe robusta, fu per decenni un’amata e affettuosa gara canora piena di melodie e sentimenti, e poco importava se i cipigli severi degli intellettuali parlavano di fenomeno nazional-popolare al ribasso, perché poi proprio la nazione e il popolo fischiettavano sotto la doccia o in bicicletta le canzoni orecchiabili e persino carine anche se destinate a svaporare («Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va, catene non ha…»). Anche se poi è vero che a parte qualche rarissima eccezione i veri cantautori italiani di razza e poesia non hanno mai calcato il palco di Sanremo: chi li ha visti mai De André, De Gregori, Paolo Conte, per dire solo tre nomi della galassia bella del cantautorato italiano? A Sanremo, si diceva, «sono solo canzonette». Ma oggi non è più così. il Festival è diventato altro e purtroppo di più, un evento di cui si parla mesi prima con concitazione, il terzo pilastro, dopo la Nazionale di calcio e il Giro d’Italia, della simbologia italica identitaria, il contenitore spurio di un «tutto» mixerato, la vetrina superficiale dove con l’alibi delle canzoni vengono mostrati pezzettini tritati di mille altre cose. Se tutti guardano lì, si son detti i padroni del vapore televisivo, facciamo passare tutto da lì. Alle melodie e ai ritornelli si mescolano i messaggi chiari e quelli sotterranei, si sdoganano mode di abiti e di costumi sessuali, parole nuove e parolacce, Benigni che loda i versi dell’inno di Mameli come se si trattasse di un canto di Leopardi, Gorbaciov che dalla tribuna del Cremlino (da cui è stato spodestato) scende lungo la scala di neon dell’Ariston come Buffalo Bill passato dal Far West mitico americano ai circhi d’Europa, e poi fra paillettes e scenette ecco sfilare premi Nobel e centravanti tatuati, scienziati e reduci dai campi di sterminio, testimoni LGBT e ambientalisti e le solite manciate di coriandoli contro razzismo, antisemitsimo, femminicidi e mafia, su cui in principio teorico tutti applaudono entusiasti, poi nella realtà è un’altra cosa. Allora mettiamoci pure, in questo tritacarne, anche Zelensky in maglietta militare che dice, fra una canzone e uno stacco pubblicitario, il dramma ucraino. Resta una confusione di generi e competenze che avvolge Sanremo in un polverone sterilizzante, in un mix indistinto di messaggi che rende «di notte tutti i gatti bigi». Dalla farfallina intravista sull’inguine di Belen al dramma di una guerra che fa grondare lacrime e sangue, è un «continuum» senza connessioni pensate, il tutto nel viavai di cantanti freschi e di tendenza e vecchi cantanti maschi tinti e vecchie cantanti labbrute, presentatori vestiti come camerieri e albani e romine risposati per finta cento volte. Chiedo scusa ma ho quasi nostalgia di «Nostalgia canaglia». La cantavano appunto Albano e Romina quando erano giovani e felici. E noi pure, un po’.

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