Editoriale

Il feticcio asociale chiamato smartphone

Viviamo quasi tutti a capo chino sullo smartphone in qualsiasi ora del giorno e in qualunque circostanza in una dimensione parallela ove il reale è inutilmente schiacciato sul virtuale
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Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
12.08.2025 06:00

Qualcosa dev’essere andato storto. Come ha scritto la psicologa americana Jean Twenge, cercando di capire perché i ragazzi di oggi crescono meno ribelli, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, “lo smartphone ha ricablato nel loro insieme i meccanismi dell’interazione sociale: quando la maggior parte delle persone si serve di questi dispositivi e utilizza i social media le ripercussioni investono tutti, che siano o no utenti di quelle tecnologie. È difficile parlare del più e del meno quando tutti fissano uno schermo. E per gli amici diventa più difficile trovarsi di persona quando la norma, ormai, è comunicare via Internet”. Un’overdose digitale e letale. D’altronde a un antropologo specializzato del calibro David Le Breton nelle rappresentazioni e nell’uso del corpo umano, non poteva sfuggire la postura ormai prevalente nell’Homo sapiens: curvo sul portatile, sempre, dappertutto, fin dalla più tenera età.

E analizzarne le conseguenze, anche estreme. «Noi entriamo – ha scritto lo studioso francese - in una società spettrale ove, perfino nelle strade, gli occhi sono abbassati sullo schermo in un gesto di adorazione perpetua, e non più spalancati sul mondo circostante». E aggiunge: «Non abbiamo mai comunicato così tanto, ma mai parlato così poco insieme». E infatti viviamo quasi tutti a capo chino sullo smartphone in qualsiasi ora del giorno e in qualunque circostanza in una dimensione parallela ove il reale è inutilmente schiacciato sul virtuale. Anche quando ci troviamo a tavola con altre persone o faccia a faccia con un interlocutore in carne e ossa che magari attende pazientemente che si torni a riservargli quel minimo di considerazione “umana” che merita.

È quello che in inglese si chiama “phubbing” contrazione di phone (telefono) e di snubbing (ignorare) che traduce il fatto di controllare notifiche, interagire coi social, navigare sul web anche quando siamo immersi in vere relazioni sociali, in famiglia, con i colleghi, tra amici o in coppia. L’individuo non sa più resistere al magnetismo di un dispositivo totipotente (ovvero che racchiude un’infinità di altri strumenti dalla macchina fotografica alla radio dal computer alla sveglia in cui il telefono, inteso come lo strumento per fare delle telefonate, è solo un aspetto marginale) come lo smartphone capace di trasformarsi in un feticcio contemporaneo riducendo i legami sociali più a un dato ambientale che a un’esigenza morale. Ma questo impedisce il confronto e annulla lo spirito critico fondamentale per ogni società civile e per ogni democrazia oltre a produrre un effetto paradossale e pericoloso: più tempo dedichiamo alle tecnologie di connessione, più ci sentiamo disconnessi.

Lo spiega alla perfezione Nicholas Carr autore di saggi importanti sul rapporto tra tecnologia, economia e cultura e apprezzatissimo interprete dei modi in cui le tecnologie cambiano la vita umana, nel suo Superbloom. Le tecnologie di connessione ci separano? (da poco pubblicato in italiano da Raffaello Cortina Editore nella traduzione di Francesco Peri). Oltre un certo livello di efficienza argomenta l’autore, la comunicazione tende a produrre confusione più che a favorire l’intesa: non promuove l’armonia ma alimenta il conflitto. Nicholas Carr accompagna il lettore alla scoperta degli effetti perniciosi che da sempre, come un’ombra, accompagnano il progresso in questo campo. Mostra come le piattaforme di messaging sacrificano le sfumature, come i social network innescano dinamiche aggressive, come i dibattiti politici in rete rendono più angusti i nostri orizzonti e distorcono la percezione della realtà. Da un lato Carr chiarisce perché i giganti della tecnologia e le loro piattaforme hanno tradito le nostre aspettative, dall’altro ci obbliga a fare i conti con verità scomode sulla nostra natura.

La psiche umana non è attrezzata per gestire la “superfioritura” di informazione che la tecnologia ha scatenato. Attingendo esempi memorabili dalla letteratura storica, scientifica e politica, Carr offre una visione panoramica delle ripercussioni sociali dei nuovi media concludendo che orse è troppo tardi per cambiare il sistema, ma che siamo ancora in tempo per cambiare noi stessi. Il digitale anche se si definisce smart o social è profondamente asociale e riconosce e appaga i nostri desideri in un modo così rapido da non concederci mai l’opportunità di esaminarli, di domandarci se quello che scegliamo, o che viene scelto per noi, è davvero degno di scelta. Forse la dipenderà da atti di scomunicazione fortemente voluti e deliberati a livello individuale e collettivo.