Berlino 1989-2019

Il Muro che cadde e l’Europa dei muri

L’editoriale del direttore Fabio Pontiggia sul trentennale
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
09.11.2019 06:00

Nell’Europa dei rinascenti nazionalismi e della dilagante ideologia sovranista l’anniversario della caduta del Muro di Berlino assume una valenza nuova. Il 9 novembre 1989 segnò la liberazione dell’Europa sequestrata dal totalitarismo sovietico. Fu il preludio alla fine del sistema fondato sul partito unico sovrapposto allo Stato e sull’economia pianificata, negatore della libertà e della proprietà. Lo smascheramento dell’utopia collettivistica concretizzatasi brutalmente nel socialismo reale. La Germania comunista, con Egon Krenz da poco subentrato ad Erich Honecker, alzò bandiera bianca, i tedeschi dell’Est poterono recarsi liberamente a ovest e il Paese ritrovò, in pochissimo tempo, l’unità perduta.

Per chi li ha vissuti di persona, ai piedi del Muro, furono momenti carichi di emozioni storiche. Nei giorni e nelle settimane successive all’incerto annuncio dato alle 18.53 di quell’indimenticabile giovedì da Günter Schabowski, ministro della propaganda della DDR, i Vopos umanizzati fraternizzavano con tutti, in piedi, là in alto, a 3 metri e 60 centimetri dal suolo. Le Trabant scoppiettanti, con il super inquinante motore a due tempi, transitavano dal varco aperto all’altezza della Potsdamer Platz.

Fin dalle prime ore del mattino i cosiddetti Mauerspechte erano all’opera con martelli e scalpelli per staccare pezzi di cemento armato da conservare quale ricordo-testimonianza di una realtà in via di dissoluzione. Si sentiva il picchettio in lontananza, come se migliaia di scalpellini fossero al lavoro in una cava di marmo. Era un brusio indistinto, appena percepibile dall’orecchio umano, che molto lentamente diveniva più chiaro, forte, atomizzato, a mano a mano che ci si avvicinava camminando lungo i sentieri in terra battuta nel parco antistante, la zona nordorientale del Tiergarten, tra il viale del 17 giugno, la Scheidemannstrasse e il Reichstag addossato al Muro.

Il primo varco nella barriera che separava l’Europa libera da quella sottomessa all’Impero del male venne in realtà aperto il 2 maggio dello stesso 1989 tra l’Ungheria e l’Austria. Da lì il moto di libertà non potè più essere arginato dai regimi del Patto di Varsavia e investì appunto, travolgendolo, il Muro di Berlino. Il 9 novembre 1989 non solo segna simbolicamente la fine del totalitarismo comunista in Europa, ma decreta anche – e questo è il passaggio meno percepito e considerato dagli analisti – lo svanire dell’illusione gorbacioviana che fosse possibile, nel Vecchio continente, riformare il sistema del partito unico attivando una sorta di pluralismo limitato e controllato sempre entro i confini ideologici del socialismo (realizzato).

Gorbaciov non è stato uno degli artefici della svolta storica; è stato invece il prodotto della pressione esercitata sul fallimentare modello dell’economia pianificata, senza libertà politiche né diritti individuali, dall’impari confronto con i successi e i progressi del modello liberaldemocratico di società retta dalle garanzie dello Stato di diritto. L’uomo della «glasnost» e della «perestrojka» è stato l’ultimo disperato e vano tentativo dell’URSS di salvare sé stessa e l’aggancio dei Paesi satelliti del Patto di Varsavia.

Artefici della caduta del Muro di Berlino sono state invece quattro grandi personalità che, per una quasi magica costellazione storica, si erano trovate a reggere negli anni precedenti e poi, tranne una, in quelli successivi le sorti della superpotenza USA, del Regno Unito, della Germania libera e della Chiesa di Roma: Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Helmut Kohl, papa Giovanni Paolo II. Il Muro e tutto quanto di illiberale esso simboleggiava sono stati sopraffatti dalla visione liberale, non statalista - coniugata alle istanze dell’economia sociale di mercato e ai valori, anche sociali, del cattolicesimo wojtyliano (e, non va dimenticato, già allora ratzingeriano) - del mondo e della società. Una visione articolata, alla quale oggi molti appiccicano abusivamente e spregiativamente l’etichetta del «neoliberismo», facendo violenza ai contenuti di quelle politiche e torto al termine stesso di «liberismo», che nulla ha a che vedere con l’affarismo ibrido ed il malsano intreccio tra potere statale e potere economico sviluppatisi negli anni successivi, con altri protagonisti assai poco liberali e per nulla liberisti, fino ai disastri del 2008.

Sull’Europa di oggi quel vento non soffia più. Il Vecchio continente, rappacificato nella libertà dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo la fine dell’equilibrio del terrore (nucleare) e la riunificazione della Germania, è spazzato da altri venti, poco o punto liberali. In non pochi Paesi dell’Est la sovranità ritrovata e pessimamente interpretata ha dato spazio a politiche sovraniste. L’Ungheria dell’ex liberale ora illiberale Viktor Orbán, l’Ungheria i cui cittadini in fuga erano stati così generosamente accolti nell’Europa libera dopo i fatti del 1956, l’Ungheria che per prima aveva aperto una breccia nella Cortina di ferro, ha vergognosamente rialzato il muro della chiusura verso chi fuggiva da una guerra terribile. Ma anche a ovest si edificano muri. Il Regno Unito non vuole più nuovi cittadini dell’UE e costruisce la palizzata della Brexit. L’elenco potrebbe essere molto lungo.

Il sovranismo sta alla sovranità come il giustizialismo sta alla giustizia. La sovranità è la libertà praticata per sé e per gli altri. Il sovranismo pratica la libertà in modo egoistico, unilaterale e discriminatorio. La sovranità unisce, il sovranismo divide. La sovranità coltiva la competizione con gli altri, il sovranismo alimenta l’odio verso gli altri. La sovranità vivifica l’identità, il sovranismo la cristallizza. La lezione del Muro di Berlino, a trent’anni dalla caduta, sarebbe più attuale che mai. Ma bisogna avere orecchie per intendere. E la mente aperta all’apprendimento. Troppe orecchie sono sorde e troppe menti sono chiuse nell’Europa del 2019.