Virus e dintorni

Il nostro corpo tra ieri e oggi

L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia
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Ernesto Galli Della Loggia
Ernesto Galli Della Loggia
26.09.2020 06:00

L’epidemia come quella che da mesi sta infierendo nel mondo è lo stimolo più potente che si possa immaginare per farci avvertire il rapporto essenziale che abbiamo con il nostro corpo. Che non rappresenta soltanto il centro vitale del nostro esistere, il riassunto ultimo dell’esistenza di ciascuno di noi. Il corpo infatti è anche la forma del nostro apparire, il modo in cui noi ci vediamo e siamo visti dagli altri. È la dimensione del nostro sé a prescindere dalla quale non riusciamo neppure a pensarci. In questo senso nel corso dei secoli - e pur limitando il nostro discorso solo a questa parte del mondo - il corpo umano si è presentato in modi assai diversi. Esso è cambiato, ha avuto una storia nella quale si rispecchiano i grandi mutamenti che l’Occidente ha conosciuto soprattutto nel livello del reddito e delle conoscenze medico-scientifiche. A differenza di un secolo fa e di quanto è dato d’incontrare tuttora in altre parti del mondo, oggi, ad esempio, è difficile imbattersi in un europeo sdentato o con i postumi della poliomielite. Proprio per il suo fortissimo valore simbolico il corpo è stato il terreno d’importanti battaglie ideologico-culturali delle quali la più vicina a noi è stata quella per la libertà; battaglia che per ciò che riguarda il corpo ha voluto dire soprattutto la contestazione del precedente divieto della nudità femminile. Cioè di una concezione del pudore di origine cristiana, che per secoli aveva dominato il costume degli europei. Non è un caso che la Rivoluzione francese abbia coinciso per l’appunto con l’affermazione di una moda nel vestire che per la prima volta lasciava scoperte parti del corpo delle donne. Da allora la rivendicazione di un’assoluta autodeterminazione circa il proprio abbigliamento (a cominciare dalla lunghezza delle gonne o dall’uso del reggiseno) è diventata una rivendicazione tipica del movimento femminista, un simbolo della rivendicazione della libertà delle donne in quanto tale. Ma non si è trattato solo delle donne. È da almeno due secoli a questa parte, infatti, che in Occidente tutti i movimenti di protesta o di semplice dissenso (non necessariamente politici: si pensi agli artisti ad esempio) contro l’ordine dominante hanno spesso e volentieri adottato un abbigliamento diciamo così anticonformista (il montgomery, i jeans, l’eskimo) che alludeva più o meno esplicitamente a una concezione del corpo - e, cosa importantissima, dei rapporti sessuali, sempre implicati quando si tratta del corpo - opposta a quella fatta propria dalla «gente d’ordine». Come è noto, la modernità si è però rapidamente impadronita di tutte queste rotture, le ha trasformate in «novità » e ne ha fatto altrettante mode, sicché oggi nessuno si stupisce, ad esempio, nel vedere la regina Elisabetta con un eskimo nella sua tenuta di Balmoral, mentre è noto che si può andare in qualunque posto vestiti più o meno in qualsiasi modo e, per dirne un’altra, le fotografie dell’avvocato Agnelli che si tuffava in mare nudo dal suo yacht (ormai vecchie peraltro di circa trent’anni!) hanno fatto il giro del mondo senza che nessuno avesse nulla da ridire. Dunque tutto bene? Dunque il corpo di noi europei ricchi, colti e smagati è finalmente diventato uno dei tanti emblemi della nostra sempre più larga libertà? Possiamo farne ciò che vogliamo, essere nella condizione fisica cui la sorte ci ha destinati, vestirci come vogliamo? Non mi pare proprio. Provatevi a salire su un autobus avendo un aspetto non dico sudicio ma appena trascurato, oppure ad essere vecchio e quindi malfermo sulle gambe o con un leggero Parkinson, ad avere un qualsiasi handicap fisico; provatevi in qualsiasi ambiente che conta ad essere grasso. La realtà è che dietro l’apparente indifferenza, dietro l’obbligatorio far finta di nulla sancito dal «politicamente corretto», si avvertirà subito il peso di un’implacabile stigmatizzazione sociale. Nuovi tabù infatti hanno preso il posto di quelli via via caduti con il tempo. Il benessere diffuso, ad esempio, ci ha reso ormai quasi insopportabile la vista di qualunque corpo che tradisca una condizione di povertà (come quello dei senzatetto o di tanti immigrati). La miseria, che un tempo era una condizione così comune e visibile, in certo senso naturale, è diventata culturalmente e socialmente imbarazzante e quindi in sostanza da negare, da allontanare da noi. Così come ci è diventata in realtà insopportabile ogni minorazione o deformità fisica: facciamo una grande fatica ad accettare specie in pubblico il corpo malato. Infine, con il pretesto di preoccuparsi del nostro benessere, un nuovo conformismo ci obbliga al salutismo, all’efficienza permanente, al dovere del peso-forma. Naturalmente invitandoci puntualmente ad acquistare - «per il nostro benessere», si capisce - la massa di prodotti parafarmaceutici ad hoc che ogni giorno si rovescia in misura crescente sul mercato.