Il Papa e il capitalismo italiano

Disoccupazione, senso di responsabilità e ipocrisia
Piero Ostellino
05.02.2010 05:01

di PIERO OSTELLINO - Benedetto Croce, il maggior filosofo italiano del Novecento, diffidava degli uomini cosiddetti di buon cuore e di buone intenzioni che – diceva – non hanno né buon cuore né buone intenzioni, «sono nient?altro che ipocriti». L?invettiva di don Benedetto – contenuta nel suo saggio «Filosofia della pratica. Economia e etica» – mi è tornata alla mente per le reazioni di una parte del capitalismo italiano all?appello del Papa al senso di responsabilità di politici e imprenditori di fronte alla crescente disoccupazione. Il Pontefice, come fa sempre un uomo di Chiesa, si riferiva – pur parlando dei futuri disoccupati di due grandi fabbriche italiane in via di smantellamento – all?Etica universalistica della religione a difesa dei più deboli. La parte «ipocrita» del capitalismo italiano ha risposto, invece, appellandosi al soggettivo moralismo del buon cuore e delle buone intenzioni e rispolverando lo stereotipo dell?impegno «sociale» dell?imprenditore che, oltre tutto, non si capisce neppure bene che cosa significhi. Temo, in altre parole, che avesse ragione Croce definendo «ipocriti» gli uomini di buon cuore e di buone intenzioni tanto più se fanno di mestiere i capitalisti. Per costoro – che criminalizzano il capitalismo anglosassone «proiettato al profitto», ma che, almeno, è esposto alla shumpeteriana «distruzione creativa», muoiono le aziende improduttive e ne nascono di nuove – il capitalismo italiano dovrebbe essere «sociale», la qual cosa, sembra di capire, vorrebbe dire non rinunciare al profitto, ma anteporgli sempre il bene della collettività. Mi limito a ricordare che il liberalismo – da Mandeville ad Hayek – sostiene che il perseguimento dell?interesse individuale (persino dei vizi «privati», secondo Mandeville) produce il benessere anche della collettività (le «pubbliche virtù» di cui parla sempre Mandeville). E descrivo che cos?è il capitalismo italiano che ama definirsi «sociale» solo per trarne, poi, una morale in termini di filosofia politica e di Etica. Dunque, il capitalismo «sociale» e «ipocrita» italiano persegue il profitto con non minore accanimento di quello anglosassone, ma al riparo della concorrenza: 1) perché le sue imprese non sono contendibili sul mercato azionario (non possono essere «scalate» e cambiare di proprietà) grazie a quegli artifici societari chiamati Patti di sindacato e a incroci azionari in base ai quali i controllati sono azionisti dei controllori, si condizionano e si proteggono a vicenda; 2) grazie al corporativismo delle professioni che, associato al conservatorismo dei sindacati, ostacola l?ingresso ai giovani e penalizza il merito; sopravvive: 3) come rendita attraverso le concessioni e le licenze di Stato e i sussidi governativi alla vendita dei propri prodotti scarsamente appetibili rispetto a quelli esteri; 4) fa pagare a correntisti e imprese servizi bancari fra i più cari d?Europa avendo contemporaneamente il «braccino corto» nella concessione del credito a chi ne ha bisogno, famiglie e imprenditori. Che cosa ci sia di «sociale» nell? «ipocrita» capitalismo italiano sarebbe, perciò, difficile dirlo. Ma non basta. Secondo quella stessa parte del Capitale industriale e finanziario che, come si vede, predica in un modo e razzola in un altro, l?Economia capitalistica mancherebbe di Etica. Ora, che sia la Chiesa a eticizzare la politica e l?economia, passi; è nell?ordine delle cose di un sistema teocratico. Assai meno nell?ordine delle cose è che ne parlino partiti e uomini politici di un Paese di democrazia liberale; perché l?etica politica e quella economica sono la teoria e la prassi dei Paesi totalitari. Senza senso comune è che ne parli il mondo dell?impresa. E qui, occorre addentrarsi nella Storia dell?economia per spiegarlo. La rivoluzione marginalista ha introdotto, fra le misure per apprezzare il valore di un bene, i concetti «qualitativi» di utilità e di rarità, rispetto a quello «quantitativo» di valore-lavoro dell?economia classica. Così, ha spostato il baricentro sociale dalla produzione al mercato, dal concetto marxiano di sfruttamento (il plusvalore sottratto al lavoratore) a quello liberale di opportunità (di scelta del consumatore). La metamorfosi economica ha avuto effetti rivoluzionari anche sull?Etica. Ha introdotto il concetto di «utile» fra le categorie della filosofia classica – a fianco di quelli di bello, vero e bene – teorizzando il ruolo della scelta individuale in economia; ha cancellato il dualismo (metafisico) fra natura e spirito, distinguendo la volontà «pratica», che coincide col fine individuale, da quella «morale» che trascende in un fine universale. «Il fatto economico – scrive Croce – è l?attività pratica dell?uomo, in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale». Alla Politica è rimasto il compito di definire, anche in campo economico, le «regole del gioco», fra le quali il rispetto della concorrenza, di una «società aperta» (la democrazia liberale) e alle dinamiche della Società civile, fra le quali la «socievolezza» – la «simpatia» di cui parla Adam Smith nella «Teoria dei sentimenti morali», che fa da necessario complemento all?«egoismo» che sembra trasparire nella «Ricchezza delle nazioni», scritta diciassette anni dopo – di fare, spontaneamente, il resto. E qui il cerchio teorico che ho disegnato per cercare di spiegare che introdurre principi etici nell?economia di mercato è distorcerne concettualmente e concretamente la natura – lo diceva persino San Tommaso, distinguendo fra «giustizia commutativa», il mercato, e «giustizia distributiva» lo Stato – e si chiude con il ritorno alle «regole del gioco» e alla «socievolezza». Anders Chydenius, un pensatore liberale finlandese, scriveva nel 1965, che la nazione «è costituita da una moltitudine di persone che si sono unite per assicurarsi la propria prosperità e quella dei propri discendenti sotto la protezione del Governo e con l?aiuto dei suoi funzionari pubblici (??). I nostri bisogni sono vari e non c?è mai stato nessuno in grado di procurarsi anche i beni di prima necessità senza l?aiuto di altre persone, e non esiste quasi nessuna nazione che non abbia bisogno delle altre» («La ricchezza della nazione», liberilibri, pagg. 47, 13 euro). Morale finale. La responsabilità «sociale» dell?imprenditore sta tutta qui; nel fare il proprio mestiere all?interno di una cornice normativa che ne massimizzi – disciplinandone la libertà di intrapresa – le capacità. Che, nell?era della globalizzazione, si traducono in innovazione e competitività. Il resto sono chiacchiere «ipocrite» come ben diceva don Benedetto Croce.