Il Pride non ha buongusto. Ma ha (troppo) business

Trecentocinquantamila persone hanno partecipato al Pride di Milano, sfidando un sole implacabile e trasformando le strade in un fiume arcobaleno. Corpi più o meno vestiti, sicuramente colorati, hanno invaso la città con ironia, provocazione e anche tanti messaggi politici forti. In molti casi, gli abiti sembravano sfidare — se non ignorare del tutto — la fisicità di chi li indossava: fuori misura, fuori tono, fuori dal buongusto. Eppure, va bene così.
Perché l’amore e i diritti non devono chiedere il permesso dell’estetica. Non serve eleganza per amare. Non serve discrezione per esistere. E non esiste corporatura «giusta» per stare in strada a rivendicare rispetto. Il Pride, da sempre, è uno spazio in cui il corpo diventa linguaggio: anche quando stona, anche quando provoca, anche quando si prende gioco del decoro. Non è la compostezza che cambia il mondo, ma il coraggio.
Il problema, semmai, è un altro. È che insieme a tutto questo, c’erano anche loro: i brand. Una catena di supermercati con slogan arcobaleno infilati tra una promozione e l’altra. Una carta di credito «orgogliosa» di lasciare esprimere ogni forma di amore in ogni angolo del mondo, se spendi. Una nota marca di vodka che propone di mischiare i generi come fossero alcolici per un cocktail. E poi multinazionali, piattaforme digitali, prodotti di bellezza. Tutti con slogan inclusivi, perfettamente calibrati per piacere, ma così vuoti da suonare come un jingle pubblicitario.
È questa la parte più indigesta del Pride: la sua trasformazione in vetrina commerciale, in passerella per messaggi preconfezionati. Il contenuto c’è — ed è sacrosanto — ma rischia di svanire dietro il packaging. È giusto rendere l’orgoglio visibile, popolare, condiviso. Ma c’è un limite: quando tutto si riduce a un logo colorato e a una frase fatta, qualcosa si rompe. Perché l’amore non è un prodotto da lanciare, e la libertà non si svende.
Il punto non è se un’azienda partecipa. È come. Chi crede davvero nella causa, si espone ogni giorno, non solo a giugno. Lo fa con politiche inclusive vere, con contratti equi, con impegni pubblici e privati. Non basta salire su un carro per dimostrare vicinanza. Non basta un post social per fare attivismo. La comunità LGBTQ+ non ha bisogno di testimonial patinati. Ha bisogno di leggi giuste, accesso alle cure, educazione sessuale reale, protezione sul lavoro, tutela delle famiglie omogenitoriali. E ha bisogno che la sua lotta non venga sfruttata, svuotata, piegata a esigenze d’immagine.
Il Pride, con tutti i suoi eccessi e le sue contraddizioni, resta uno spazio potente di resistenza. Chi lo giudica solo una carnevalata non ha capito la sua origine. Chi storce il naso davanti a un bacio, a un corpo non conforme, a una drag queen sul carro, dovrebbe chiedersi perché l’uguaglianza lo disturba solo quando fa rumore.
Un giorno potremo discutere di buongusto. Ma solo quando non servirà più sfilare per essere riconosciuti. Fino ad allora, lasciate che il Pride resti scomodo. Ma, per favore, che almeno resti autentico. E magari, anche un po’ meno sponsorizzato.