Il rebus del libero accesso

L'EDITORIALE DI LINO TERLIZZI
Jeroen Dijsselbloem al terzo Private Banking Day che si è svolto ieri al LAC di Lugano.
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
26.05.2018 06:00

DI LINO TERLIZZI - Il tema del libero accesso ai mercati europei da parte delle banche elvetiche è stato giustamente posto ieri al centro del Private Banking Day, che è promosso dall'Associazione delle banche private svizzere (ABPS) e dall'Associazione delle banche svizzere di gestione (ABG) e che si è svolto quest'anno a Lugano. La piazza finanziaria elvetica in questi ultimi anni ha dovuto affrontare una mole non indifferente di problemi, che si sono fatti sentire. Pur non essendo ai picchi di altre epoche, la piazza svizzera manifesta tuttavia una tenuta per alcuni aspetti sorprendente e mantiene nel complesso una leadership nella gestione di patrimoni. Restano aperte però alcune sfide di rilievo e tra queste il libero accesso occupa una posizione non secondaria. Ciò è ancor più vero per la piazza ticinese, che ha sofferto di più e che sul pieno accesso al mercato italiano si gioca non proprio poco. Come hanno ricordato Yves Mirabaud, presidente dell'ABPS, e Marcel Rohner, neopresidente dell'ABG, oltre il 50% dei ricavi del settore bancario svizzero viene dalla gestione patrimoniale privata e istituzionale. Questa attività è in larga misura d'esportazione. I servizi finanziari infatti sono prodotti in Svizzera ma sono destinati a clienti che per due terzi stanno all'estero. E questi clienti – senza nulla togliere all'importanza dell'Asia, delle Americhe e di altre aree – sono ancora e soprattutto in Europa. Di qui, anche, l'importanza di poter ottenere un libero accesso ai mercati europei. L'accesso c'è oggi molto in parte, è marcatamente limitato. Jeroen Dijsselbloem, socialdemocratico olandese pro rigore ed ex presidente dell'Eurogruppo, si è detto ottimista su una politica dei piccoli passi nei rapporti tra UE e Svizzera, ma non ha nascosto le diffidenze che ancora esistono nell'Unione europea al riguardo delle piazze finanziarie esterne. Ma l'intervento per molti aspetti più atteso era ieri quello del consigliere federale Ignazio Cassis, che come capo del Dipartimento degli affari esteri è in prima linea nei vari capitoli dei negoziati con l'Unione europea. Cassis ha distinto tra un accordo complessivo Svizzera-Unione europea sui servizi finanziari e accordi bilaterali sui servizi finanziari transfrontalieri con i Paesi vicini. Il primo non è possibile, ha affermato, anche perché ci sono posizioni diverse nella finanza elvetica: le banche private lo vogliono, le grandi banche sono più tiepide, le assicurazioni non lo vogliono. Vanno invece cercati varchi sugli accordi bilaterali con Italia, Francia, Germania, Austria. Considerando che con questi ultimi due Paesi esistono già accordi che si avvicinano al libero accesso, il grosso della partita si gioca con Francia e Italia. Più avanti, sull'onda della Brexit, si porrà anche la questione di un accordo bilaterale con il Regno Unito. Una parte della platea presente al LAC ha interpretato le affermazioni di Cassis come una secchiata d'acqua fredda, un'archiviazione di fatto del tema del libero accesso. Ma è lo stesso consigliere federale ticinese a ribadire l'interpretazione autentica: un accordo finanziario generale con Bruxelles non è possibile per via del quadro attuale dell'Unione europea e delle divisioni degli attori finanziari svizzeri; però resta importante continuare a cercare una via per arrivare ad accordi bilaterali, anzitutto con i quattro Paesi UE confinanti. La posizione del capo del Dipartimento degli affari esteri conferma quindi che l'azione di Berna sarà rivolta ad intese bilaterali, per quel che riguarda i servizi finanziari. Certo che la questione del libero accesso, che era già di per sé un rebus, viste le diversità delle posizioni nell'UE e in Svizzera, guardando all'Italia assume alcuni aspetti paradossali. L'intesa tra Svizzera e Italia annunciata a Milano nel febbraio 2015, dall'allora consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf e dal ministro italiano dell'Economia Pier Carlo Padoan, aveva tre parti principali: la collaborazione elvetica all'autodenuncia fiscale (voluntary disclosure) varata in Italia; una nuova imposizione fiscale per i frontalieri italiani; l'avvio di discussioni sul libero accesso al mercato italiano dei servizi finanziari. Di questi tre capitoli, solo il primo, che dipendeva in pratica dalla Svizzera, è stato attuato. L'accordo sui frontalieri poi definito non ha più preso il via e viene contestato da più parti in Italia, soprattutto in Lombardia. Per il libero accesso sul versante italiano siamo al punto di prima e anzi l'applicazione delle norme europee Mifid è stata nel frattempo attuata in Italia riaffermando l'obbligo di succursali per i Paesi extra UE. E ora bisognerà anche vedere cosa farà il nuovo Governo italiano. Il libero accesso è un principio giusto in sé, vantaggioso sia per gli operatori che entrano in un mercato sia per il mercato che lascia entrare, perché si sviluppa un meccanismo di sana concorrenza. Ma vale la pena anche di ribadire che, per molte banche e operatori finanziari svizzeri di dimensioni piccole e medie, sono proibitivi i costi legati alla creazione di strutture in Italia o in altri Paesi. Poter operare in direzione di clienti esteri direttamente dal Ticino e dalla Svizzera in molti casi è un fattore rilevante. Per le grandi banche è meno difficile avere una presenza diretta all'estero, ma anche per esse in fondo non sarebbe male poter disporre di uno strumento in più come il libero accesso. In ballo ci sono anche, naturalmente, posti di lavoro da creare e mantenere in Svizzera. La sfida è difficile, ma sarebbe un grave errore rinunciare ora. Occorre che politica e banche cerchino di giocare altre carte a favore del libero accesso.