Il referendum, l'Italicum e i tanti dubbi

di FERRUCCIO DE BORTOLI - Quattro dicembre, una data temuta. In Europa e non solo. L'Italia voterà la riforma costituzionale, l'Austria eleggerà il suo presidente. L'attenzione, persino eccessiva, è concentrata più sul referendum italiano. Una vittoria del sì rafforzerebbe indubbiamente il Governo Renzi riducendo gli elementi di instabilità. Il no avrebbe invece, secondo non pochi analisti, serie conseguenze sui mercati. Un'ulteriore spinta populista all'ingovernabilità. Il presidente del Consiglio italiano, dopo aver paventato le dimissioni in caso di sconfitta, ha saggiamente fatto marcia indietro. E si è reso conto che prefigurare sconquassi, nel caso di una soluzione avversa, esaspera fragilità del sistema istituzionale ed economico italiano che in parte non esistono. Insomma, l'allarme è eccessivo. Una democrazia che teme così tanto un voto popolare si dimostra incerta al di là dei propri limiti. L'Austria non finirebbe - e nemmeno l'Europa - se andasse al potere Hofer; l'Italia non scivolerebbe nel caos se dovesse vincere il no.
La speranza è che gli elettori, numerosi e bene informati, decidano sul merito della proposta di cambiare 47 articoli su 139 della Costituzione. Ci sono buone ragioni per il sì e altrettante per il no. Chi scrive voterà no ma non pensa che la vittoria del sì apra la strada a una deriva autoritaria. E si augura che il Governo rimanga in carica comunque. Non mancherà - ma è accaduto anche con la Brexit - chi voterà no solo per contrastare l'esecutivo. Il referendum è sul vestito istituzionale che il Paese dovrà indossare nei prossimi decenni, smettendo solo nella parte organizzativa dei poteri dello Stato (non sui valori) quello cucito dai costituenti nel 1948, peraltro rimaneggiato anche male in diverse occasioni. Non è un plebiscito sul Governo.Detto questo, vediamo in sintesi, spero oggettiva, i cambiamenti principali apportati alla Costituzione dopo una doppia votazione di Camera e Senato e sottoposti a referendum perché non approvati da una maggioranza dei due terzi. La riforma mira al superamento del cosiddetto bicameralismo paritario. Il Senato non sarà più direttamente elettivo. Non voterà la fiducia al Governo e si trasformerà in una rappresentanza delle autonomie locali con soli 100 membri (da 315) di cui 5 nominati per sette anni dal capo dello Stato. In realtà, su diverse materie, rimarrà la doppia competenza tra le due assemblee. I nuovi senatori, ovvero consiglieri regionali e sindaci, godranno dell'immunità che a livello locale è loro preclusa. Non avranno vincolo di mandato pur essendo rappresentanti delle realtà territoriali. La riforma parla di una modalità di elezione indiretta con metodo proporzionale. Come farà a rispettarla la Regione o la Provincia autonoma che ha diritto a soli due posti nel nuovo Senato?
L'esecutivo avrà finalmente la possibilità di utilizzare una corsia preferenziale per far approvare a data certa i suoi provvedimenti. Oggi esiste un solo procedimento legislativo, per quanto farraginoso; in futuro ne esisteranno almeno dieci. La semplificazione è tutta da dimostrare. Alcuni poteri normativi regionali tornano allo Stato centrale dopo la pessima esperienza della loro frettolosa delocalizzazione attuata - con legge costituzionale - dal centrosinistra nel 2001 in chiave anti Lega.Il presidente della Repubblica potrà essere eletto, dai membri di Camera e nuovo Senato, dalla settima votazione in poi, con i tre quinti dei votanti. Non degli aventi diritto al voto. La maggioranza, in caso di assenze, sarà in grado di eleggersi il suo presidente della Repubblica, che però è garante di tutti. Il CNEL, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, viene abolito. Come le Province, in parte sostituite dalle Città metropolitane (14 in totale) già apertamente in crisi e disconosciute, alle quali il Governo nega l'autonomia finanziaria, peraltro prevista dalla riforma.Un maggior peso all'esecutivo, indispensabile in un Paese in cui i governi cambiano troppo velocemente, dovrebbe essere bilanciato da strumenti di democrazia diretta. Il referendum abrogativo può avere un quorum più basso se si raccolgono 800 mila firme anziché 500 mila. L'istituzione di un referendum propositivo e di nuove norme sulle leggi di iniziativa popolare è però rimandata ad altra riforma costituzionale. Il convitato di pietra del referendum del quattro dicembre è la legge elettorale per la Camera dei deputati, il cosiddetto Italicum, che assegna un premio di maggioranza (340 seggi su 630) al partito, non alla coalizione, che superi il 40 per cento. Se la soglia non dovesse essere raggiunta, è previsto un ballottaggio tra i due partiti più votati. L' Italicum, con i capilista bloccati e le candidature plurime, assicura in molti casi l'elezione ai candidati scelti dai partiti e imposti dai leader. L'insieme della legge elettorale e di un Senato non più elettivo fa sorgere qualche dubbio sull'effettiva libertà di scelta degli elettori e sul futuro della democrazia rappresentativa italiana. Renzi ha promesso aggiustamenti alla legge elettorale che molti ritengono peggiori l'effetto complessivo della riforma costituzionale con un eccessivo potere al partito vincitore, o meglio al suo leader. È escluso che ciò avvenga prima del voto. È augurabile, ma non certo, che accada dopo.