Editoriale

Il salto carpiato dalla pietra al digitale

Qualcuno forse si stupirà ma il nostro cervello nella sua struttura è rimasto grosso modo quello del Paleolitico
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Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
25.04.2025 06:00

Qualcuno forse si stupirà ma, e almeno su questo gli scienziati sono concordi, il nostro cervello nella sua struttura è rimasto grosso modo quello del Paleolitico. Nessuno si offenda allora, perché i meccanismi dell’organo più misterioso e complesso degli esseri umani da un punto di vista evolutivo sono fermi all’Età della pietra. A quando circa diecimila anni fa abbiamo smesso di essere «cacciatori-raccoglitori» e siamo diventati «agricoltori stanziali» iniziando quel processo rapidissimo e fondamentale che si chiama rivoluzione neolitica: il momento in cui, più che in qualunque altro, biologia e cultura si sono intrecciate, influenzandosi a vicenda e producendo la nostra Storia.

È stato allora che un’umanità in precedenza sempre affamata ha cominciato a produrre in autonomia il cibo di cui aveva bisogno, e quindi a crescere e a diffondersi sul pianeta. Inventando, nel breve (evolutivamente parlando) giro di qualche migliaio di anni aggeggi interessantissimi come la ruota, il cucchiaio, l’ombrello, le città, la scrittura, le macchine a vapore, le medicine, gli orologi, gli occhiali, gli aerei, i computer e compagnia bella. Bel colpo, direte voi, ed in effetti è così, se non fosse che questa improvvisa accelerazione ha generato un clamoroso disallineamento evolutivo tra la complessità che il nostro singolo e individuale cervello riesce ad affrontare e a elaborare efficacemente e la complessità del mondo che la somma degli sforzi dei cervelli dell’intero genere umano ha saputo costruire negli ultimi millenni. In sostanza, l’evoluzione tecnologica è andata infinitamente più veloce dell’evoluzione organica, che modifica i nostri corpi, cervello compreso, adattandoli alle mutate condizioni ambientali. Questo vuol dire che i cervelli umani contemporanei (del XXI secolo dell’era cristiana) continuano a funzionare in modo pressoché uguale ai cervelli dei nostri antenati paleo-meso-neolitici.

Certo, nelle menti dei Sapiens di oggi c’è un’enorme, ulteriore quantità di cultura, e un’enorme, ormai esagerata quantità di informazioni che ci ingegniamo (sempre peggio a dire il vero) di elaborare. Ma diversi automatismi di base sono rimasti identici a quelli che per due milioni e mezzo di anni hanno efficacemente permesso ai nostri antenati, dall’australopiteco in avanti, di salvarsi la pelle, di nutrirsi e di riprodursi secondo i meccanismi della natura e dell’ambiente circostante. E tutto ciò, è inutile far finta di niente, in questa precisa epoca storica e tecnologica di problemi ce ne causa parecchi. E a dirlo non sono dei burberi luddisti pervasi da cosmico e passatista pessimismo antitecnologico ma i più autorevoli neuroscienziati internazionali che del cervello umano e dei suoi meccanismi cercano di scoprire i segreti di fronte ad un’evidente e repentina degenerazione cognitiva, guarda caso, coincidente con la dipendenza universale dalle «nuove tecnologie» con tutte le implicazioni che ne conseguono per la nostra vita quotidiana.

L’allarme lo aveva lanciato già alcuni anni fa il tedesco Manfred Spitzer con il suo profetico (nel 2012 l’attuale «Somalia digitale» come è stata perfettamente definita sembrava ancora un incubo evitabile) Demenza digitale ed ora viene rilanciato sulla scorta di nuovi studi e di ulteriori evidenze dal neurologo americano Richard E. Cytowic nell’inquietante Un cervello dell’Età della pietra nell’Era degli schermi. Affrontare distrazione e ansia senza farsi travolgere appena pubblicato anche in italiano da Apogeo. E gli esiti sono sconfortanti: quello che Cytowic definisce lucidamente come «il complesso industriale della distrazione» sfrutta scientificamente l’arretratezza biologica dei nostri cervelli esponendoci ad una crescente vulnerabilità alle tecnologie moderne, come gli schermi e le piattaforme digitali, che ci bombardano costantemente. Ansia, distrazione, deficienze cognitive, danni alla memoria e alla capacità di interagire correttamente con gli altri, disturbi del sonno, incapacità di concentrarsi, di focalizzarsi su attività prolungate o di riflettere, pensare e prendere decisioni razionali e ponderate, sono solo alcuni dei danni devastanti (e Cytowic ci spiega nel dettaglio il come e il perché) che la sovrastimolazione digitale permanente provoca, specie nei cervelli più giovani, se non impariamo ad usare le nuove tecnologie in modo consapevole e moderato. Lo scienziato evoca antidoti urgenti come l’importanza del silenzio e della «disconnessione» consapevole. E faremmo bene a sbrigarci prima che un impossibile salto carpiato evolutivo si trasformi per la nostra specie in un suicida salto mortale.