Situazioni, momenti, figure

Il «sì» di Dante suona ancora

Per Dante il «sì» era il simbolo delle genti della penisola, «il bel paese là dove ‘l sì suona», unificante quando mancavano ancora seicento anni all’unità
© Shutterstock
Salvatore Maria Fares
Salvatore Maria Fares
25.11.2022 06:00

Ogni anno si tiene in luoghi diversi la settimana della Lingua italiana nel mondo. L’Istituto italiano di cultura a Bruxelles l’ha appena dedicata al tema «L’italiano e i giovani». Sono loro i protagonisti della conservazione o meno di un prezioso patrimonio dal Mediterraneo alle Alpi ma che non ha fruitori come altre lingue, la più diffusa delle quali è l’inglese, ormai universale, che raccoglie in poche parole quello che l’italiano descrive con qualche colore in più. Almeno per noi che lo usiamo resta una felicità comunicativa resa però sempre più essenziale con intercalare di termini estranei. Si lamentano in molti ma si deve anche pensare che la Storia ha mille modificazioni. Accadde con il latino che dominante in tanta Europa durante l’impero romano si trasformò e poi si dissolse lasciando il posto alla diffusione del cosiddetto «volgare», nel senso di popolare, anche con l’arrivo nordico fra invasioni e commerci. Resta bella la nostra lingua, soprattutto se usata correttamente e senza troppe intrusioni importate. Bruno Migliorini nella sua «Storia della Lingua italiana», ricordò che le modificazioni risalgono al tempo di Augusto, fino a Odoacre, quando i volgarismi si fecero strada. Per Dante il «sì» era il simbolo delle genti della penisola, «il bel paese là dove ‘l sì suona», unificante quando mancavano ancora seicento anni all’unità. Oggi quel sì è l’abusatissimo e corrente «ok», in ogni ambito e occasione. Ogni giorno ne abusano al punto che l’abuso ci ha portati alla disinvolta accettazione, quasi rassegnazione per molti. Sono rimasti in pochi quelli che vanno a fare una visita medica o un controllo; oggi si fa un check up. Scrissi una volta di una ragazza di valle che inurbata e assunta in un posto di prestigio si adeguava al «novitismo lessicale» e la sentii dire che «i musicisti stanno facendo il check sound, fra poco finisco, poi ci becchiamo in city per un lunch; ma prima faccio un blitz al back stage, magari ti faccio un chiamo. Ok?» Questo è il nostro italiano? L’inglese è la lingua della comunicazione internazionale, influenza tutti, non solo gli italo parlanti; contamina perfino l’impenetrabile Francia, dove però si difendono più di noi. Ma sembra che sia scomparsa anche la dilettevole abitudine all’eleganza della forma che risalta soprattutto dove vi sia sostanza. La lingua corrente soccombe alla sciatteria. Gli esempi sono su certi giornali da scoop e canali popolari, si allargano e diventano regola nei rapporti quotidiani. Scrissero della morte del congiuntivo, ecco una bella forma dell’eleganza davvero defunta, ma oggi tutte le forme verbali del resto si sfumano. L’importante per la gente è comunque comunicare un concetto, un messaggio che lo esprima, anche se male, anche sommariamente, come sappiamo. L’informale è una regola soprattutto nel parlato, la gente accetta di tutto. Il trionfo del «così come pure» che impesta è lampante. Lo scritto è riservato a sempre meno mani. Chi, del resto, a parte alcuni prosatori, inclina ancora all’eleganza, purtroppo spesso elitaria? La comunicazione dovrebbe essere snella, fluida senza pastoie sintattico grammaticali. Nei decenni scorsi l’Italiano ha fatto conquiste perché ha integrato i dialetti. La capacità di comprendere testi elementari è data dall’immediatezza di un concetto, e la capacità di uso e comprensione della lingua è bassa anche in chi ha svolto studi superiori. La difficoltà di uso della nostra Lingua è diffusa. Nicoletta Maraschio, cattedratica già presidente dell’Accademia della Crusca, mi disse che si confonde reazionario con rivoluzionario e a mia volta potevo aggiungere che la disinvoltura nell’uso della lingua porta a confondere ad esempio l’islamista con il terrorista islamico, perfino là dove l’esattezza della comunicazione dovrebbe essere rispettata. Comunicare per molti è ormai disinvoltura, proprio come ragionare che è facoltativo. Se Gérard de Nerval scrisse che «l’ignoranza non si impara», oggi in certi ambiti assistiamo a una gara fra chi invece la migliora costantemente. Innegabile è la perdita di competenza nell’uso del linguaggio, come indicava il professor Adriano Fabris, che da esperto di comunicazione sottolineava come non vi sia soltanto una contaminazione ma anche un vero e proprio impoverimento. E non solo dell’Italiano, dovuto anche al fatto che si parla meno ma si scrive di più attraverso e con mezzi nuovi che inducono alla disinvoltura soprattutto formale. Ma nonostante gli anglicismi il sì per ora suona ancora. Ok?