Il valore culturale dell'inglese

L'EDITORIALE DI MATTEO AIRAGHI
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
24.05.2018 06:00

di MATTEO AIRAGHI - Forse la delusione per non aver mai vinto il Nobel per la Letteratura gli sarà stata mitigata anche dalle ultime penose vicende che hanno travolto il più prestigioso premio letterario del mondo. Anzi, ora che Philip Roth se n'è andato siamo sicuri che l'essere definitivamente in compagnia di gente come Borges, Joyce, Proust o Céline (ma anche Gadda o Moravia tanto per restare al nostro idioma di riferimento) sotto sotto non gli dispiaccia per nulla e sottenda persino quel gusto per lo sberleffo irridente che il grande scrittore americano non faceva nulla per nascondere. E comunque Roth, che non riusciva proprio a sopportare il brusio mediatico su di lui e aveva più volte dichiarato di trovare irritanti i ricorrenti commenti e le polemiche sul suo mancato Nobel, prenderà di certo male gli inevitabili riferimenti alla curiosa mancanza che in queste ore si sprecano in tutti i «coccodrilli» che i media di mezzo mondo gli stanno dedicando. Ma la scomparsa di questo gigante della letteratura contemporanea, forse quello che meglio di tutti ha interpretato i disagi del secondo Novecento americano, offre anche lo spunto per qualche considerazione più originale. In un'intervista di qualche mese fa Roth sosteneva, non a caso, che «la mia principale responsabilità estetica è nei confronti della lingua inglese così come si è evoluta in America, la madrelingua per mezzo della quale cerco di trasmettere al mondo le mie fantasie di realtà ? le mie sbrigliate allucinazioni camuffate da romanzi realistici».

Ed ecco il punto, la lingua utilizzata da uno dei massimi creatori di letteratura del nostro tempo: l'inglese. Perché purtroppo tra le vittime collaterali del dilagante abuso dell'orripilante global english che inquina (per tutta una lunghissima serie di ragioni) specialmente la nostra meravigliosa lingua e della sacrosanta crociata che, spesso anche da queste colonne, è vitale condurre vi è anche la stessa lingua inglese. Abituati ormai a considerarlo come il male assoluto simbolo dell'omologante e colonizzante appiattimento figlio dell'epoca della superficialità digitale e dell'ignoranza rischiamo infatti, anche noi innamorati della lingua di Dante, di trascurare che l'inglese, quello vero e non la sua spregevole pantomima, è una straordinaria lingua letteraria. Anzi c'è chi sostiene che la devastante volgarizzazione e banalizzazione dell'inglese in realtà faccia male soprattutto all'inglese. Infatti nei contesti multilinguistici in cui l'inglese è la lingua veicolare, il prezzo da pagare per i parlanti madrelingua è la necessità di essere in qualche modo costretti ad adeguarsi al basic english degli alloglotti, e questo porta in primis ad un appiattimento della loro lingua e non delle lingue non veicolari, che invece continuano ad essere parlate nei contesti monolingue, tra l'altro arricchendosi (e non impoverendosi) grazie ai prestiti dall'esterno. Così se tralasciamo per un attimo quella sorta di utile, per carità, ma insidiosa koinè basic (che qui potrebbe stare per per britannico americano scientifico internazionale commerciale) pseudoanglofona che pervade le nostre esistenze quotidiane, quello che rimane della lingua di Shakespeare è un poderoso sistema letterario, colonna portante della cultura europea ma pure straordinariamente capace di diventare codice di comunicazione «alta» per realtà e identità diversissime tra loro: dalla borghesia ebraica newyorkese (come nel caso emblematico di Roth) alla poesia rurale gallese, dalla dimensione afroamericana del profondo Sud alle immensità culturali del subcontinente indiano, dal connubio anglo-maori neozelandese alla miscellanea creola degli scrittori e poeti caraibici alla Derek Walcott.

E questo, si badi bene, non soltanto a livello di prestigiosa eredità del passato da studiare a scuola (Marlowe, Chaucer, Milton, Coleridge, Blake, Scott, Chesterton, Whitman, London, Joyce, Scott Fitzgerald, Thomas, Capote, Updike... si potrebbe andare avanti e indietro nel corso dei secoli snocciolando a caso nomi della letteratura anglosassone fondamentali per la cultura di ognuno di noi) ma anche come grande narrativa per capire il presente e l'addio a Philip Roth sembra arrivato apposta per ricordarcelo. La battaglia contro l'invasione degli anglicismi inutili non è dunque soltanto necessaria per tutelare (e ci mancherebbe) l'italiano ma è anche una questione culturale più ampia che può aiutare l'inglese a salvarsi dal peggio di se stesso. Utilizzarlo meno a sproposito e conoscerlo meglio (nelle meravigliose traduzioni ovviamente, ma avete mai provato a leggere Roth o Salinger in versione originale?) rappresenta un traguardo fondamentale che tutti coloro che amano le lingue e la letteratura dovrebbero tenere sempre in considerazione.

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