In Italia rivoluzione liberale in standby

La pubblicazione del Documento programmatico di bilancio (DPB) - che gli Stati membri dell’UE devono presentare entro il 15 ottobre di ogni anno alla Commissione europea e all’Eurogruppo - ha dato il via in Italia al dibattito sul bilancio dello Stato per il 2026.
In vigore dal 2013, l’obbligo di presentare a Bruxelles il Documento programmatico di bilancio, in cui devono venire anticipati criteri e obiettivi del bilancio dello Stato dell’anno entrante, è uno di tanti sviluppi di dubbia legittimità sostanziale che negli ultimi anni la Commissione europea (che, come dice il suo nome, sarebbe un organo tecnico e non un governo) sta imponendo ai Paesi dell’Unione. Tale distorsione è tanto più grave in quei casi in cui, come in Italia, il documento non viene preliminarmente discusso in Parlamento - l’istituzione democratica cui tipicamente compete di decidere riguardo alla spesa dello Stato - ma viene contemporaneamente inviato dal governo a Bruxelles e alle Camere.
In Italia la spesa pubblica complessiva si aggira attorno ai 915 miliardi di euro all’anno, dei quali oltre 328 miliardi sono assorbiti dai rimborsi per il debito pubblico (cresciuto dal 37% del 1970 al 135% del PIL nel 2024) e la gran parte del resto è già irrevocabilmente assegnata. La discussione riguarda la “manovra”, ossia la somma che si può decidere ogni anno come e dove spendere, quest’anno 18,7 miliardi di euro. È attorno alla spesa di questi fondi, relativamente esigui, che si confrontano governo e opposizione. La “manovra” consiste in un insieme di interventi relativi ai più diversi settori: da misure a favore della natalità, tra cui in primo luogo l’aumento del “bonus mamme”, a (modesti) tagli delle imposte sulle famiglie e sulle imprese, alla “rottamazione” di debiti fiscali ormai difficilmente esigibili. In campo sanitario fondi aggiuntivi per l’assunzione di 6.300 nuovi infermieri e 1.000 nuovi medici.
Sia come sia, la pubblicazione del DPB e del successivo progetto di legge di bilancio hanno riacceso l’ormai annoso dibattito su quello che il governo di Roma può fare per rilanciare l’economia del Paese, che da oltre vent’anni ristagna. Come la stessa Meloni denunciò nel suo discorso di insediamento, dal 2000 in avanti l’Italia è cresciuta complessivamente solo del 4 per cento, mentre la Francia e la Germania crescevano del 20 per cento.
Osservando che l’Italia è «tra le poche nazioni europee in costante avanzo primario» - ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, al netto degli interessi sul debito - e che il risparmio privato delle famiglie italiane ha superato la soglia dei 5 mila miliardi di euro, Meloni aveva detto che avrebbe puntato innanzitutto a creare nel Paese un clima di fiducia che «potrebbe sostenere gli investimenti nell’economia reale». Dichiarandosi ben consapevole che «le imprese chiedono soprattutto meno burocrazia, regole chiare e certe, risposte celeri e trasparenti», aveva inoltre promesso «una strutturale semplificazione e deregolamentazione dei procedimenti amministrativi per dare stimolo all’economia, alla crescita e agli investimenti. Anche perché tutti sappiamo quanto l’eccesso normativo, burocratico e regolamentare aumenti esponenzialmente il rischio di irregolarità, contenziosi e corruzione, un male che abbiamo il dovere di estirpare. Abbiamo bisogno di meno regole, ma chiare per tutti».
A tre anni dall’ottobre 2022, quando si insediò il governo da lei presieduto (che perciò è finora il terzo per durata nella storia della Repubblica italiana dopo il II e il IV governo Berlusconi), quest’opera di semplificazione e di deregolamentazione è ancora da venire. La rivoluzione liberale che non riuscì a Berlusconi non si sta finora avviando nemmeno con Meloni. D’altra parte una tale rivoluzione implicherebbe anche una revisione complessiva sia della spesa pubblica che dell’intero sistema fiscale, cui ovviamente non si può pensare nelle poche settimane che passano tra la pubblicazione del DPB e il voto sulla legge del bilancio. Tale revisione dovrebbe ovviamente essere un impegno primario e permanente del governo. Sommersa dai suoi impegni in sede europea e internazionale, finora invece Meloni non si sta adeguatamente occupando di questa fondamentale questione.
